Come si trovano gli italiani in Svizzera? Chi ci sta benone e chi invece soffre

Dallo sfogo di un Italiano uno spunto di riflessione con Giuseppe Pietramale che ha indagato sul tema

Come si trovano gli italiani in Svizzera? Chi ci sta benone e chi invece soffre.

Lugano - Come si trovano gli italiani residenti in Svizzera? Un Paese che, nei loro confronti, non è stato esente da episodi di razzismo nel secolo scorso (e qualcuno anche oggi). Ciò accadeva ad opera di una parte della popolazione che, per fortuna, non rappresentava l’intera popolazione. Una mentalità razzista che fece leva sulla estraneità di usi e costumi di immigrati troppo in contrasto con lo stile di vita degli elvetici. Negli anni ’50, scesi dalle stazioni di Zurigo, di Basilea o di Sciaffusa, gli italiani erano immediatamente riconoscibili dalle loro valigie, dal forte vociare e dal gran gesticolare. Sembravano sbarcati da un altro pianeta, come suol dirsi. Oggi le cose sono assai diverse, arriva l’operaio con il suo trolley, e arriva il laureato con il suo Pc; nessun vocìo, ma nell’animo il medesimo desiderio di farcela, di sistemarsi, di trovare una propria dignitosa strada. 

C’è a chi va bene, c’è chi trova difficoltà e delusioni. Il sito Ticinonews ha pubblicato il 18 ottobre scorso la lettera di un trentenne italiano emigrato in Svizzera che così si è sfogato: « ... Passano i mesi, e ti rendi però conto che il Paradiso non è di questa Terra... Cerchi un lavoro attinente ai tuoi studi? Ben presto ti accorgi che qui la tua laurea è fondamentalmente carta straccia! Cerchi un qualsiasi lavoro, pur umilissimo, che ti permetta di vivere dignitosamente? Nella migliore delle ipotesi, qualora non si richieda il Tedesco Madrelingua... o uno dei tanti attestati federali (anche per un posto di lavapiatti!) o un permesso di soggiorno (un miraggio senza prima un contratto in mano...), ti rispondono: “ma lei è sprecato per questa posizione...”. Col morale a terra, continui ancora a cercare la tua strada, tra cartelloni pubblicitari che raffigurano gli italiani come «ratti» e, un po’ ovunque, giornali che sfoggiano titoli a tutta pagina del tipo «Costretti ad emigrare!» (riferiti, stavolta, ai Ticinesi, a causa dell’immigrazione italiana). Sconfortato, sull’orlo di una crisi di nervi, chiudi gli occhi, e ti accorgi di vivere con un pugno di mosche in mano... ». 

Un libro uscito l’anno scorso ha ben delineato i reali stati d’animo degli italiani emigrati: La nostra Svizzera. Giudizi e pregiudizi. Gli autori Giuseppe Pietramale e Raffaele De Rosa, italiani residenti in canton Sciaffusa, hanno raccolto svariate testimonianze per capire come si trovano gli italiani residenti in Svizzera, a partire da quelli arrivati a ondate negli anni 50-70,  fino a quelli dei nostri giorni.

Dalle testimonianze emergono gli stati d’animo di chi vive in Svizzera – per forza o con  piacere – in relazione al modo di concepire il lavoro,  al diventare anziani in terra straniera, al fatto di parlare una lingua spesso ostica dato che moltissimi italiani risiedono nella Svizzera tedesca. A Giuseppe Pietramale abbiamo chiesto un parere sullo sfogo del trentenne che si ritrova in Ticino con «un pugno di mosche in mano». 

«Anch’io ho vissuto una esperienza simile quando mi reputavano “troppo formato, per quanto richiedevano”. Non è piacevole, certamente, vedersi negato un lavoro per questi motivi, ma li ho giustificati per il fatto che nella maggior parte dei casi, i datori svizzeri valutano la remunerazione degli impiegati proprio in base alla loro formazione. Io, per fortuna, per tenacia, per intraprendenza o quant’altro sono andato avanti, ma principalmente per il desiderio  di volere apprendere, conoscere, giorno dopo giorno, e trarre dalla mia esistenza quanto più possibile. A prescindere dal curriculum che si è accumulato negli anni». 

Da quanto tempo e perché vive in Svizzera?
«Vivo nella Svizzera tedesca da più di sei anni assieme alla mia adorata moglie (nata in Svizzera da genitori italiani) e ai nostri figli. Sono arrivato qui senza conoscere una parola di tedesco, eccetto Brot, Würstel e Spätzle. Eppure fin dall’inizio ho provato a darmi da fare, sia per un riscatto personale, sia per fungere da esempio per i nostri due bambini Provarci, rispetto e “carpe diem” sono spesso i miei slogan».

È ovvio che tutti partono con il desiderio di trovar fortuna.
«Sì, ma pretendere di prevedere cosa possa accaderci è un’utopia. Sono molteplici le ragioni di un “trasferimento drastico”, preferisco chiamarlo così invece di emigrazione. Io ho scelto, pur avendo un lavoro in Italia, di trasferirmi per svariati motivi. Seppure ho avuto modo di ascoltare quanto è capitato a tanti altri ho provato a non farmi condizionare dalle loro esperienze poco costruttive o negative, perché ogni esperienza è prettamente soggettiva. Anzi, ho provato a prendere spunto da quello che ho sentito per provare a non cadere negli stessi errori».

E ci è riuscito?
«Se da un lato mi sento realizzato, non sono un tipo che si accontenta facilmente. Non sono qui per disperazione, ma per scelta e per dare più chance ai miei figli. Non saprei se in Sicilia potrebbero essere fortunati come me».

Ogni tanto, grazie ad episodi come il manifesto “italiani ratti” affisso tempo fa in Ticino,  c’è chi rivanga nel passato ricordando le scritte “vietato ai cani e agli italiani” degli anni ‘50.
«Seppure mi trovo nella Confederazione da pochi anni, conosco benissimo queste storie perché vissute direttamente dai miei nonni quando emigrarono in quell’epoca, quindi non potrei mai condividere i metodi attuati per selezionare chi passava il confine. Nessuno può negare la crudeltà attuata nei controlli. Spero di non essere equivocato, ma ho provato anche a mettermi nei panni di coloro che dovevano accogliere gli stranieri. La maggior parte di persone che emigrava aveva un tenore di vita a volte misero che non permetteva di certo un controllo periodico della propria salute». 

Per lei era solo una forma di prevenzione per eventuali malattie portate dai lavoratori dall’estero? 
«Non do forza alla xenofobia o al razzismo di Schwarzenberg e di tutti coloro che sostenevano le sue iniziative, figuriamoci, ma l’afflusso di stranieri era notevole, e seppure gli svizzeri hanno sfruttato quelle persone bisognose, dovevano trovare un modo per selezionarli. Avrebbero dovuto trovare dei modi più umani, questo è innegabile. Anche oggi nel mediterraneo si adottano controlli  per le persone che arrivano su barconi straripanti dall’Oriente o dall’Africa: ovviamente l’approccio è molto più decente. In quegli anni di intenso flusso migratorio, in un territorio piccolo come la Svizzera, i metodi erano, possiamo dirlo, arcaici, a partire dai locali di prima accoglienza per finire all’atteggiamento di superiorità di dottori o assistenti incaricati dei controlli sanitari e burocratici».

Come sarebbe la Svizzera senza italiani?
«Effettivamente oggi sarebbe parecchio diversa sotto molti aspetti. È ormai risaputo, e più volte è stato rimarcato, che la presenza degli italiani ha arricchito la cultura elvetica. Ad esempio nel settore industriale o edilizio. L’influsso - e lo sfruttamento - di una manodopera massiccia arrivata dall’Italia in periodi diversi, ha accelerato il processo evolutivo delle infrastrutture elvetiche. Molte aziende svizzere, ad esempio, hanno preso spunto dai sistemi costruttivi dei lori “vicini di casa”. Per non parlare degli aspetti culturali». 

Ad esempio?
«Con l’arrivo degli italiani, differenti tra loro a seconda della regione di provenienza, è arrivato un flusso di novità: tradizioni culturali, abitudini alimentari diverse, una moltitudine di dialetti, ecc. Molte abitudini o feste tradizionali, ad esempio, venivano ripetute nei luoghi dove gli emigrati si trasferivano, importando modi, usi e costumi diversi, che se da un lato disturbavano alcuni svizzeri, dall’altro attiravano la loro curiosità. Gli elvetici  più aperti presero spunto da alcuni modi di vivere degli emigrati che sembravano a loro parere vantaggiosi». 

Poi vi è l’aspetto linguistico...
«... che è molto importante. Seppure la Svizzera sia una terra in sé plurilingue, un solo cantone italofono non avrebbe potuto diffondere la “dolce lingua” in tutta la Svizzera in maniera così capillare. L’utilizzo di alimenti, usanze, apertura al nuovo e al diverso, in Svizzera, ha subito un netto incremento. La convivenza con gli italiani, prima, ha agevolato poi quella con gli spagnoli, e quella multietnica di oggi. Lo stare bene o male in Svizzera dipende anche da come il singolo si pone nei confronti delle opportunità o difficoltà che trova». 

Nel libro La nostra Svizzera. Giudizi è pregiudizi, le testimonianze sono variegate, ma in buona sostanza anche chi, per predisposizione caratteriale si è subito sentito a suo agio, guadagna bene, ama il proprio lavoro e non intende tornare più in Italia , ha fissa nel cuore la propria nazione, come si legge: “Sono attratti dall’Italia, la amano e la sentono propria, ma non sono in grado di lasciare la Svizzera. Questa terra che tanto ha dato loro, dove si sono realizzati, hanno creato una famiglia, hanno visto e vedono un futuro sicuro, tranquillo; però, quando chiediamo se hanno o vorranno il passaporto svizzero, la maggior parte risponde negativamente”.
lorefice.annamaria@gmail.com

Giuseppe Pietramale (nella foto) ha curato con Raffaele de Rosa il libro “La nostra Svizzera. Giudizi e pregiudizi” che si può richiedere per e-mail pietramale@libero.it o presso la casa Editrice Libridine, oppure tramite il portale Ibs. Il CIS, Coordinamento Italiani Sciaffusa, ha finanziato la stampa dei volumi e con l’incasso organizza iniziative culturali.