«Svizzera-Italia oltre gli stereotipi e i cliché»

Insegnante e scrittrice, Valentina Giuliani ha origini italiane ma da anni vive nel nostro cantone ed è sposata a uno svizzero: con lei abbiamo cercato di affrontare il tema frontiera con uno sguardo differente

L’Italia. E la Svizzera. Anzi, il Ticino. La frontiera attrae. Spaventa, anche. In ogni caso fa discutere, intrecciandosi ai discorsi sulla pandemia. Soprattutto adesso, con l’estate (e gli Europei di calcio) alle porte. Di riflesso, con la possibilità di varcare il confine senza troppi pensieri grazie al green pass. Un «bel pezzo di carta», volendo citare il ministro del Turismo Massimo Garavaglia. L’Italia lo introdurrà il 15 giugno, in anticipo rispetto all’Unione europea. Banalmente, guariti e vaccinati non dovranno più presentare un test negativo per entrare nel Belpaese. Un passo avanti, già. Che dovrebbe calmare, in particolare, comuni come Lavena Ponte Tresa da tempo desiderosi di riabbracciare la clientela ticinese. Perché, appunto, la vicinanza geografica non crea soltanto flussi turistici. Crea relazioni, rapporti economici, finanche affetti. Per questo ci siamo rivolti a Valentina Giuliani. Origini italiane, vive ad Arogno e insegna da anni in Ticino. È autrice di libri scolastici e nel 2017 ha scritto, assieme a Marco Jeitziner, la sua prima raccolta di racconti dal titolo Noi. Racconti a due voci tra Italia e Canton Ticino, edita da Armando Dadò. Un libro ironico, piacevole, capace di andare oltre gli stereotipi e i luoghi comuni. È lo spunto per la nostra chiacchierata.

Partiamo da una piccola, grande battaglia. Quella condotta dal sindaco di Lavena Ponte Tresa Massimo Mastromarino, fra l’altro presidente dell’Associazione Comuni italiani di frontiera, e dal senatore del Partito Democratico Alessandro Alfieri. Da tempo invocavano un’eccezione per la fascia di confine. Sono stati accontentati. Italia e Svizzera, almeno nelle vicinanze delle dogane, avrebbero dovuto garantire sempre una certa libertà?
«La libertà è, se pensiamo al confine, soprattutto libertà di movimento, di confronto, di scambio. Prendiamo il Ticino e la Lombardia. Di fatto, c’è una commistione quotidiana. Non solo per motivi legati al lavoro e agli affetti ma anche per ragioni di studio. Tanti sono gli studenti che arrivano qui dall’Italia e viceversa diversi ticinesi si spostano in università oltreconfine. Questo improvviso blocco di ogni rapporto, dovuto alla pandemia, è stato faticoso, penalizzante. Poter prevedere degli allentamenti e delle eccezioni, adesso che ci sono i vaccini e i dati sulla diffusione della pandemia sembrano confortanti, è importante. Il confine esiste, è un modo per difendere, proteggere e marcare un’identità. Ma questa identità cresce anche con il confronto, con la diversità e l’alterità. In particolare il Ticino, anche da un punto di vista storico, è legato indissolubilmente alla Lombardia e all’Italia. È bene continuare a mantenere vivo questo legame. Ricordo il primo lockdown e ricordo una grande flessibilità alla frontiera: i medici e gli infermieri frontalieri si dimostrarono disponibili, ad esempio trasferendosi in Ticino per poter essere sempre presenti».

Il confine è anche una questione di affetti. Un aspetto sacrificato sull’altare dell’emergenza sanitaria. Come la mettiamo?
«È una considerazione molto giusta. Forse, la sofferenza maggiore è stata quella relativa all’interruzione delle relazioni e della vita sociale. Il confine c’entra relativamente, non è un discorso solo Ticino-Italia. Durante la prima ondata siamo rimasti a lungo chiusi in casa. Lontano dagli affetti e dalle persone più care. Ho una storia famigliare di medici, la mia risposta rispetto al tema sollevato risente di questa appartenenza. Al primo posto c’è la salute. È chiaro che poi c’è stata e c’è tuttora una grossa sofferenza sul tema della socialità e degli affetti. Lo vedo con i miei allievi a scuola. I ragazzi non hanno potuto frequentare nonni, amici e parenti per un lunghissimo periodo, mostrando una sofferenza, in alcuni casi quasi patologica, con attacchi di panico e paura ad uscire. Nel momento in cui si sapeva poco di questo virus e i contagi aumentavano, credo che il lockdown rigido fosse l’unica soluzione possibile. O comunque quella più giusta».


“L’ironia è una chiave di lettura, però non è così facilmente comprensibile”.


Muoversi sul confine significa anche affrontare luoghi comuni e stereotipi, da una parte e dall’altra. È l’ironia la chiave per capire Italia e Svizzera? Quantomeno, è quanto emerge dal suo libro.
«È la mia chiave di lettura, però l’ironia non è così facilmente comprensibile proprio perché riflette anche una mentalità, una cultura, un modo di vita non sempre condivisi da una parte e dall’altra del confine. Ad esempio alcune battute di un mio amico svizzero-tedesco difficilmente mi fanno ridere. Per poter capire una certa ironia bisogna anche condividere sensibilità, approccio, visione del mondo.

Tornando al libro, direi che la sua storia è emblematica dei rapporti fra Ticino e Italia. Al momento della sua uscita sul mercato è stato accolto positivamente, con recensioni entusiastiche. In un secondo tempo è stato anche un po’ snaturato e perfino strumentalizzato per fini politici. Ha avuto degli alti e bassi, diciamo. Ho scritto questo libro assieme a Marco Jeitziner con tutte le migliori intenzioni possibili.

Come ricorda Giovanni Soldati nella prefazione, Noi testimonia un gesto d’amore verso il Ticino, Paese che mi ha accolto, dandomi un lavoro che amo nonché la possibilità di scrivere e pubblicare. A breve uscirà, sempre per Armando Dadò, una nuova raccolta di racconti ispirata al Museum of broken Relationships (Museo delle relazioni interrotte, ndr) che si trova a Zagabria. È un museo voluto da due artisti. Vi si trovano oggetti-ricordo di diverse coppie che testimoniano la fine di un rapporto d’amore. Per ogni oggetto, illustrato dall’artista zurighese Barbara Fässler, ho scritto un racconto su una storia d’amore finita. Ce n’è uno legato alla pandemia, in cui si parla di un amore a distanza, sospeso, irrisolto... Questo a proposito di affetti congelati».

Forse ragioniamo in termini troppo semplicistici: ma ha ancora senso, nel 2021, avere paura del confine, al netto del discorso frontalieri?
«Non utilizzerei la parola paura semmai, forse, diffidenza. Dovuta a stereotipi, pregiudizi, mancanza di conoscenza dell’Italia. Una realtà molto diversificata. Ho conosciuto molte persone di mentalità aperta in Ticino, con una curiosità incredibile. La Svizzera ha una marcata storia di immigrazione. Non c’è paura, no. C’è una fase di studio, ma nel momento in cui ci si conosce le barriere cadono. L’obiettivo, anche da parte italiana, è abbandonare i cliché e vivere le relazioni, le esperienze. Perché, appunto, esiste anche il pregiudizio all’incontrario: che la Svizzera sia soltanto orologi, banche e cioccolata, che si parli “lo svizzero”, che le persone siano fredde e poco socievoli... D’altro canto, gli italiani, considerati spesso come indisciplinati, sono stati in larghissima parte rigorosi nel rispettare le restrizioni imposte durante la pandemia. Bisogna andare oltre».


“Nel libro ho dedicato un capitolo alla lingua della Svizzera italiana, elogiandone la ricchezza e la creatività”.


Lo «svizzero», se così vogliamo definire l’italiano parlato in Ticino, ha ottenuto delle piccole ma significative vittorie: l’Accademia della Crusca ora accetta anche «la meteo» quando parliamo di previsioni.
«Nel libro ho dedicato un capitolo alla lingua della Svizzera italiana, elogiandone la ricchezza e la creatività. E questo perché, rispetto all’italiano classico, raccoglie tante parole dal francese e dal tedesco. Per tacere dei neologismi, quasi fosse più ricettiva dell’italiano di Dante. Che spesso si chiude. Basti pensare alle discussioni sul termine “petaloso”. Ma una lingua ha una sua storia e riflette i cambiamenti della società, arricchendosi sempre di nuove espressioni».

Si parla tanto di vacanze, complice il green pass. C’è anche però il turismo nostrano, riscoperto durante la pandemia. È vero che lei, in Ticino, ha trovato delle analogie con la Toscana?
«Sì, le ho ritrovate nella dolcezza di alcuni paesaggi collinari e nella dolcezza di certi scorci. Mio marito ed io viviamo nella natura circondati da cipressi, ulivi e vigneti. Abbiamo perfino un orcio per mettere gli ombrelli e lo stemma del giglio di Firenze all’uscio. Ho origini fiorentine e la Toscana la porto sempre nel cuore».

L’ultima domanda, come dire, è un po’ scanzonata. Fra poco Svizzera e Italia si affronteranno agli Europei. Viene alla mente la famosa scena di Pane e cioccolata, in cui un Nino Manfredi biondo platino cerca in tutti i modi di fare lo svizzero ma, al gol degli Azzurri contro l’Inghilterra, non riesce a trattenere la gioia lasciandosi andare in un urlo liberatorio. Chi ha il cuore diviso a metà come può tifare?
«Non sono una tifosa di calcio, preferisco lo sci. Sono un’appassionata. Siccome c’è una buona alternanza fra Svizzera e Italia sul podio, sono felice in entrambe le mie dimensioni. Per l’Italia il calcio è indiscusso protagonista, anche nelle pagine dei quotidiani, in Ticino invece ci sono hockey, sci e tante altre discipline. In questo preferisco la Svizzera».

© CdT/Gabriele Putzu

Marcello Pelizzari
In collaborazione con Corriere del Ticino

 

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