Industria delle armi sotto tiro

Le esportazioni di armi svizzere sono una costante fonte di critiche. Due iniziative popolari prendono di mira l’industria di armamenti. Il popolo voterà su una di queste il prossimo 29 novembre.

L’iniziativa «Per il divieto di finanziare i produttori di materiale bellico» intende vietare i finanziamenti svizzeri nell’industria degli armamenti. In particolare, la Banca nazionale svizzera (BNS), le casse pensione e le fondazioni non avrebbero più il diritto di finanziare le imprese di cui oltre il 5% della cifra d’affari proviene dalla produzione di materiale bellico. L’iniziativa è stata lanciata dal gruppo per una Svizzera senza esercito (GSsE) e dai Giovani Verdi. Dal loro punto di vista la Svizzera, in quanto paese neutrale e guardiana delle Convenzioni di Ginevra, deve rinunciare a «trarre profitto dalle vittime della guerra».

Il Consiglio federale e il Parlamento respingono l’iniziativa senza controprogetto. Per il ministro dell’economia Guy Parmelin (UDC), l’attuale divieto di finanziamento delle armi atomiche, biologiche, chimiche e di munizioni a grappolo è sufficiente. Egli sottolinea che l’iniziativa riguarderebbe numerose imprese non implicate nell’armamento, ad esempio una vetreria che, a lato delle finestre ordinarie, fabbricherebbe vetri per il cockpit di aerei da combattimento.

L’iniziativa popolare, sostenuta solo dall’area verde di sinistra, potrebbe faticare a trovare consensi alle urne, come già in passato altre iniziative del gruppo GSsE: nel 2009, il 68% dei votanti ha respinto un’iniziativa popolare che voleva vietare le esportazioni di materiale bellico.

Contro le esportazioni nelle regioni in guerra
L’iniziativa popolare «Contro le esportazioni di armi in paesi teatro di guerre civili», lanciata da un comitato interpartitico, ha maggiori possibilità di successo. Contrariamente all’iniziativa del GSsE, essa non pretende il divieto assoluto di esportare materiale bellico, bensì vuole evitare che le armi svizzere siano vendute nei paesi alle prese con guerre civili o che violano sistematicamente e gravemente i diritti umani.

Questa «iniziativa riparatrice» è nata all’indomani che il Consiglio federale aveva autorizzato l’esportazione, nei paesi teatro di guerre civili, dal momento che non c’era motivo di credere che le armi sarebbero state usate nel conflitto. Il governo voleva così sostenere l’industria svizzera delle armi, ma ha rinunciato a questo allentamento di fronte alle critiche feroci. Gli iniziativisti vogliono inoltre annullare una decisione parlamentare del 2014, che autorizza le esportazioni di armi anche nei paesi che violano sistematicamente i diritti umani. Il Consiglio federale intende sottoporre al Parlamento un controprogetto che va nella direzione degli iniziativisti. Questi ultimi non escludono di ritirare la loro iniziativa se le loro esigenze fossero adottate legalmente. Non si sa quindi ancora se il popolo svizzero dovrà esprimersi anche su questa tematica.

Theodora Peter

Le esportazioni di armi raddoppiano

Nel primo semestre del 2020, le imprese svizzere hanno esportato materiale bellico per un valore di 501 milioni di franchi. È quasi il doppio dello stesso periodo del 2019 (273 milioni di franchi). Secondo le autorità, simili fluttuazioni sono correnti e sono dovute a diverse grosse ordinazioni. 55 paesi figurano nella lista degli acquirenti. Il principale importatore nel primo semestre è stata l’Indonesia, che ha acquistato sistemi di difesa aerea per 110 milioni di franchi. Il Botswana, dal canto suo, ha acquistato veicoli blindati per 64 milioni di franchi. In Europa, i maggiori acquirenti di materiale bellico svizzero sono stati la Danimarca, la Romania e la Germania. (TP)

Blindati in legno contro le esportazioni di armi: alcuni militanti dell’iniziativa «Per il divieto di finanziare i produttori di materiale bellico» manifestano a Berna (2017). Foto Keystone