Intervista a Iris Bohnet, docente svizzera di Harvard
Iris Bohnet, docente svizzera di Harvard, smonta il concetto di intuito, spiega come deve essere condotto un colloquio di lavoro e mette in guardia dai pericoli dei social media.
Signora Bohnet, iniziamo con una domanda facile: cos’è che muove l’uomo?
Forse la domanda era intesa in senso ironico, ma posso rispondere con una sola parola: la passione.
Tutto qui?
Avrei anche potuto rispondere «la sete di conoscenza» o «il senso della vita». Ma la passione è più profonda. Ci spinge a lavorare, amare, uscire a fare jogging il mattino, comprare fiori, dare il meglio di noi nella professione ma anche a tenere duro se il lavoro non ci piace pur di mantenere la famiglia o a resistere durante un periodo in carcere.
Lei ha un dottorato in economia.
Sì. Che risposta vi aspettavate da me? Che è il denaro a muovere le persone?
Forse, o più in generale la massimizzazione dei vantaggi.
Status sociale, reddito, patrimonio, potere, tutto questo ci influenza dall’esterno. Ma se la domanda è che cosa muova davvero l’uomo, allora non sono questi aspetti ma il nostro essere più profondo. E passione è una parola che riassume bene tutte quelle forze interiori che possiamo anche definire motivazione intrinseca.
Le sue ricerche vertono sulla fiducia intesa da un punto di vista economico-comportamentale: qual è la relazione con la sfera privata?
Più conosco una persona, più fiducia avrò in lei e più le permetterò di avvicinarsi. La chiave della sfera privata è la fiducia.
Un detto recita: fidarsi è bene, controllare è meglio.
Vero, controllare è molto utile, ma costoso. Se sui tram ogni passeggero venisse controllato nessuno viaggerebbe senza biglietto. Ma è efficienza questa?
Kenneth J. Arrow, premio Nobel per l’economia recentemente scomparso, disse: «Potersi fidare degli altri sulla parola permette di risparmiare un sacco di costi e problemi». Il politologo Francis Fukuyama considera la fiducia persino come un fattore per la creazione del benessere di una nazione o di un’azienda. È d’accordo?
Di recente in un negozio mi sono accorta di aver dimenticato il portafogli quando mi trovavo già in cassa. Ho chiesto al cliente in coda dietro di me se potesse prestarmi del denaro e lasciarmi il suo nome e indirizzo, cosa che ha fatto. Così ho evitato la seccatura di dover andare a casa e tornare al negozio. Assieme all’assegno ho poi inviato a quella persona anche una scatola di cioccolatini – gli interessi insomma. La fiducia migliora senza dubbio l’efficienza, è vantaggiosa per tutti.
Riporre o meno fiducia in qualcuno dipende anche dalla reputazione della persona in questione.
A volte la nostra opinione personale su qualcuno è meno importante di quella degli altri. Questo è il potere della reputazione. E con il progresso tecnologico questo potere aumenta. Prima di un acquisto consultiamo le recensioni. Amazon, Ricardo e TripAdvisor hanno semplificato il mondo e rafforzato l’orientamento al cliente, ma come ogni altro progresso nascondono dei pericoli.
L’onda incontrollata di commenti?
Ultimamente mi capita spesso di ripensare a «L’onore perduto di Katharina Blum» di Heinrich Böll. È la storia di una donna che, pubblicamente screditata a causa dell’amicizia con un criminale, cade vittima di un tragico destino. Böll ne fa una critica ai media scandalistici, che appaiono però innocui rispetto ai social media. Com’è possibile verificare tutto ciò che viene pubblicato? Non c’è da stupirsi se viviamo nell’era delle «fake news». Oggi più che mai è importante proteggere la sfera privata.
L’importanza della fiducia aumenta?
Cambia. La fiducia serve quando l’informazione è ripartita in modo asimmetrico. Se tutti sappiamo le stesse cose non c’è bisogno di aver fiducia in qualcuno. Le ultime tecnologie hanno ad esempio portato maggiore trasparenza nel mondo della finanza e incrementato lo scambio di informazioni.
Da un iPad oggi è possibile intervenire sulla propria strategia d’investimento e monitorarla costantemente. Durante i colloqui con i consulenti clientela abbiamo tutti i dati sotto mano e possiamo simulare gli scenari più disparati in tempo reale. Da un lato il cliente dispone di più informazioni ma dall’altro il quadro è diventato poco trasparente, la complessità è aumentata e si trova anche a scegliere tra più offerenti. In questo contesto, fiducia e competenza riacquistano un’enorme importanza.
Parte della sua attività di ricerca dimostra come le persone diventino sensibili quando si abusa della loro fiducia, lei la chiama avversione al tradimento. Possiamo paragonarla all’avversione al rischio?
No. Faccio un esempio lampante della differenza. Supponiamo che andiate al casinò e che ci sia un gioco in cui potreste raddoppiare la puntata. Qual è la probabilità di vincita per cui secondo voi varrebbe la pena giocare?
Giocheremmo se in più della metà delle giocate ci fosse la possibilità di vincita.
Quindi una probabilità di circa il 55 per cento. Ora succede che un collega che non conoscete bene vi chiede del denaro in prestito, promettendo di restituirvene il doppio a fine settimana. Con quale probabilità di riavere il denaro decidereste di prestarglielo?
Dovremmo esserne piuttosto sicuri. Diciamo il 75 per cento?
Come potete vedere nel vostro caso l’avversione al rischio è inferiore all’avversione al tradimento di 20 punti percentuali. Ed è così per la maggior parte delle persone, semplicemente non ci piace essere traditi.
Lei tuttavia ha dimostrato anche che vi sono grandi differenze culturali rispetto al modo di reagire a un tradimento.
Supponiamo che io gestisca una galleria e che voi abbiate acquistato da me un quadro per 1000 franchi, ma che non l’abbiate ancora ritirato. Arriva un’altra cliente a cui il quadro piace ancora di più e mi offre 2000 franchi. Negli Stati Uniti è molto probabile che io venda l’opera alla signora e vi restituisca i vostri 1000 franchi più una certa somma come risarcimento danni, dal momento che in fondovi ho procurato un piccolo danno emotivo. È quello che si chiama «efficient breach»: il non adempiere a un contratto per ragioni di efficienza compensando la controparte della perdita subita.
In Svizzera sarebbe impensabile. Qui il sistema si basa sulla stretta di mano.
Esatto. Il nostro sistema si basa sul principio giuridico «pacta sunt servanda», i contratti vanno rispettati. Ciò significa che con ogni probabilità in Svizzera avrei riservato il quadro per il primo acquirente.
Da un punto di vista morale questo comportamento appare corretto.
Certo, ma anche il sistema americano favorisce la fiducia. In caso di inadempimento contrattuale si riceve un compenso. Il sistema è inoltre meno discriminante. Non è necessario valutare se una persona merita la nostra fiducia dal momento che il sistema mantiene i costi delle inadempienze contrattuali molto bassi, un po’ come un’assicurazione. Per contro, nei paesi dove è estremamente importante non essere ingannati, si fanno affari solo con persone in cui si nutre una fiducia totale, come la propria famiglia o cerchia di conoscenze.
Quali sono queste culture?
Abbiamo condotto i nostri esperimenti in tutto il mondo e rilevato che, in molti paesi del Medio Oriente, la concessione della fiducia
legata all’improbabilità che quella persona abusi del rapporto di fiducia. Il tradimento ha una forte connotazione morale in quest’area del mondo. Inoltre essere ingannati significa anche perdere la faccia, perché implica che non si sono fatti i dovuti controlli sulla controparte. Le pene sono altrettanto draconiane.
Quali sono i paesi che stanno all’altra estremità della scala?
La Cina è il paese con la minore avversione al tradimento. Anche in Brasile è molto bassa. In questi casi non c’è quasi alcuna differenza tra avversione al rischio e avversione al tradimento. Concedere fiducia a una persona è visto un po’ come giocare d’azzardo. A volte va bene, a volte no.
Negli ultimi tempi si sta sempre più interessando all’intuito e a come ci faccia cadere in errore. Ma non è proprio il tanto decantato sesto senso che contraddistingue noi umani?
Moltissime ricerche dimostrano come l’intuito sia ingannevole perché si basa su pregiudizi e stereotipi. Ma è proprio nelle decisioni più importanti, come l’assunzione di collaboratori, che si vuole essere certi di aver preso la decisione migliore.
Quindi in questo caso meglio ignorare il nostro intuito?
Sì, non è un buon consigliere quando si tratta di valutare prestazioni e competenze in un processo di candidatura. Quando si legge che una candidata ha una determinata età, due bambini e ha studiato in tale o tale altra università, subito in noi scattano associazioni che non per forza sono corrette. Le chiedo: pensando alla popolazione della Florida che associazioni le vengono spontaneamente in mente?
I pensionati che vogliono godersi il caldo.
In realtà l’84 per cento della popolazione della Florida ha meno di 65 anni, una percentuale appena al di sotto della media americana. La popolazione della Florida è dunque certamente un po’ più anziana rispetto al resto degli USA, ma se una candidatura arriva da quello Stato non c’è motivo di supporre che si tratti di una persona in là con l’età. Si tratta di uno dei tanti «bias», o effetti di distorsione, di cui si occupa l’economia comportamentale.
Se non ci si può fidare del proprio istinto, su che cosa si può fare affidamento nella scelta di un collaboratore?
Numerosi studi dimostrano cosa funziona e cosa no. Innanzitutto è necessario redigere un annuncio che si rivolga ai candidati e alle candidate giuste. Sembra una banalità, ma gli algoritmi possono esserci in parte d’aiuto per ripulire il nostro linguaggio da effetti di distorsione indesiderati. Poi i curricula dovrebbero essere resi anonimi, niente nome e indirizzo, e naturalmente niente foto. Abbiamo dimostrato che non aggiungono alcuna informazione importante ma che anzi ci inducono in errore.
E durante il colloquio?
Mai come oggi disponiamo di così tante informazioni sui candidati, ciò nonostante conduciamo ancora colloqui di lavoro non strutturati, dove gli intervistatori sono spietatamente in balia dei propri pregiudizi. Google, ad esempio, ha stabilito il numero ideale di intervistatori, ovvero quattro, e quali sono le domande effettivamente in grado di rivelare un futuro positivo in azienda. È il potere dei Big Data. Inoltre è utile mettere i candidati alla prova sui compiti che saranno chiamati a svolgere, questi test possono individuare un collaboratore di successo molto meglio di un colloquio.
A suo avviso la simpatia è la peggiore consigliera. Perché?
L’obiettivo del reclutamento non deve essere trovare un nostro clone, la cosiddetta intelligenza collettiva è infatti maggiore nei team molto variegati. Se una persona ci sta simpatica, è facile che sia una replica di noi stessi.
Non tutti i pregiudizi sono sbagliati, uno svizzero tende in media a essere più puntuale di un indiano.
Esatto. Il nostro intuito funziona per regole empiriche, ci aiuta a cavarcela con efficienza nelle situazioni quotidiane. Ma come tutte le regole empiriche può sbagliare. Perché affidare decisioni importanti a un sistema che è stato dimostrato essere difettoso, soprattutto quando possiamo basarci su processi più attendibili?
Lei cerca di eliminare quanti più elementi possibile a cui potrebbero rimanere impigliati i pregiudizi, ma il mondo va in tutt’altra direzione.
Purtroppo è così. Storicamente, in tempi di grande insicurezza e rapidi cambiamenti, le persone si sono sempre isolate. Ed è quello che stiamo vivendo ora. Ci isoliamo con il nostro popolo, le persone che hanno il nostro stesso colore della pelle, che appartengono al nostro stesso sesso e partito politico. Paghiamo il prezzo del fatto che molti paesi occidentali sono cresciuti a spese della piccola classe media. Il divario tra ricchi e poveri si è allargato e per la prima volta i vincitori non sono tutti uomini e bianchi. Una parte di questo gruppo si sta ribellando contro l’establishment e la globalizzazione.
Nell’occhio del ciclone ci sono anche le persone come lei, un membro dell’élite, una docente che argomenta con cifre e fatti alla mano.
Sì, la fiducia nei confronti della cosiddetta élite è in calo. Nel corso della campagna elettorale americana per me è stato un grande shock constatare come si sia data voce ai pregiudizi così a cuor leggero. Fino a soli due anni fa sarebbe stato inconcepibile esprimere pubblicamente dichiarazioni razziste.
In Svizzera la situazione è un po’ diversa. Stando al barometro delle apprensioni di Credit Suisse, l’esecutivo svizzero gode di una grande fiducia, molto più forte di altri governi esteri. Come mai?
Penso che il dato abbia a che vedere con la democrazia diretta. La politica è molto vicina al popolo. In molti paesi c’è un divario che separa cittadini e politica, non è così in Svizzera. Anche se talvolta si può non essere d’accordo, non credo che in Svizzera la classe politica sia fuori dalla realtà.
Per finire, una domanda personale. Quali criteri l’hanno guidata nella decisione più importante della sua vita privata: come ha reclutato suo marito?
(Ride). Mi ha colto in fallo, in quel caso non sono stata molto sistematica. Mi sono semplicemente innamorata. Ma prima di sposarci ci siamo confrontati in modo molto oggettivo e poco romantico sulle cose importanti della vita: volevamo avere dei figli? Volevamo lavorare? E quanto? Solo dopo aver negoziato tutti gli aspetti abbiamo firmato la convenzione matrimoniale. Lo consiglio a tutte le coppie.
Intervista di
Mandana Razavi e Simon Brunner
in Bulletin 2/2017 del Credit Suisse
Iris Bohnet, nata 51 anni fa a Lucerna, è economista comportamentale e docente alla Harvard Kennedy School dov’è anche direttrice del «Women and Public Policy Program». È membro del Consiglio di amministrazione di Credit Suisse e autrice dell’apprezzato volume «What works – Gender equality by design». Iris Bohnet è sposata con Michael Zürcher, avvocato. La coppia ha due figli.