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Fleur Jaeggy “I beati anni del castigo”

    Fleur Jaeggy e “I beati anni del castigo”: adolescenza e solitudine in un collegio svizzero

    Di Fleur Jaeggy fu facile innamorarmi. Naturalmente mi riferisco alla sua penna e al suo stile. Mi capitò con questo romanzo. Lo acquistai alla sua uscita, sul finire del 1989, e per tre motivi precisi. Si trattava di un’autrice svizzera, di una donna, e di un volume Adelphi. Qualità garantite. E un firmamento tutto da scoprire. Avevo letto qualcosa su una rivista letteraria e mi aveva incuriosito. In seguito avrei letto altre sue opere. Da qui, la difficoltà di scegliere quale libro consigliare in particolare. Per qualche giorno ho pensato di proporre la lettura di La paura del cielo (Adelphi, 1994), sette racconti magistrali da centellinare. Intrisi di cultura mitteleuropea, malinconia e senso della morte, sempre ai margini della tragedia, dello smarrimento di fronte a certe situazioni esistenziali, ai confini del gesto inconsulto, talvolta della follia, anche solo apparente, ma pericolosamente sotterranea, romantica, talvolta decadente.

    L’anno successivo alla sua pubblicazione, nel 1990, a “I beati anni del castigo” venne conferito il prestigioso Premio Bagutta. E l’Italia tutta finalmente si accorgeva di Fleur Jaeggy.

    L’ambientazione del romanzo è uno dei tanti rinomati collegi privati rossocrociati in cui studiano e crescono ragazze e ragazzi di buona famiglia, facoltose quanto basta per permetterselo.

    «A quattordici anni ero educanda in un collegio dell’Appenzell. Luoghi dove Robert Walser aveva fatto molte passeggiate quando stava in manicomio, a Herisau, non lontano dal nostro istituto. È morto nella neve. Fotografie mostrano le sue orme e la positura del corpo nella neve. Noi non conoscevamo lo scrittore. E non lo conosceva neppure la nostra insegnante di letteratura.»

    Siamo solo alla prima pagina e l’autrice già incanta e cattura. Con le prime frasi, con l’argomento, con lo stile. Descrive subito un luogo, un collegamento letterario importante, un evento tragico, un atteggiamento morboso, e infine una pecca dell’osannato sistema educativo elvetico. E prosegue imperterrita.

    «A volte penso sia bello morire così, dopo una passeggiata, lasciarsi cadere in un sepolcro naturale, nella neve dell’Appenzell, dopo quasi trent’anni di manicomio, a Herisau. È un vero peccato che non sapessimo dell’esistenza di Walser, avremmo colto un fiore per lui. Anche Kant, prima di morire, si commosse quando una sconosciuta gli offrì una rosa.»

    Di nuovo, riemerge l’attraente morbosità adolescenziale per la morte, anche solo prefigurata, naturalmente stoica. E l’insistenza sul manicomio come prigione esistenziale alla quale sottrarsi, non troppo dissimile dal collegio, vissuto come costrizione parallela, privazione degli affetti familiari e parziale perdita di libertà. Ma il riscatto romantico viene poi offerto con il breve, toccante pensiero del fiore colto per il povero scrittore. Con l’accostamento di un altro nome altisonante, e di un altro fiore.

    Strano che l’insegnante di letteratura del collegio femminile di cui si parla non conoscesse Robert Walser, scrittore svizzero assai importante, molto prolifico e attivo in vari campi artistici. E significativo da parte della Jaeggy l’accorato ricordo della sua scomparsa, avvenuta il 25 dicembre 1956, quando l’autrice aveva sedici anni, essendo nata nel 1940. È dunque evidente l’esperienza autobiografica da cui l’autrice trae linfa per la sua trama.

    Al Bausler Institut, gestito e diretto dalla signora e dal signor Hofstetter, giunge una nuova allieva, Frédérique. È bella, altera, taciturna, colta, ammaliante. La protagonista se ne sente attratta. La intuisce interessante e controcorrente, per quanto, al contrario di sé, diligente e brava nello studio. La vuole come amica. Cerca in lei complicità. Ecco come la descrive, presentandola al lettore:

    «Fu un giorno, durante il pranzo. Eravamo tutte sedute. Arrivò una ragazza, una nuova. Aveva quindici anni, i capelli diritti come lame, lucenti, gli occhi severi e fissi, ombrati. Il naso aquilino, i denti, quando rideva, e rideva poco, erano aguzzi. Una bella fronte alta, dove i pensieri si potevano toccare, dove generazioni passate le avevano tramandato talento, intelligenza, fascino. Non parlava con nessuno. Le sembianze erano di un idolo, sprezzante. Forse per questo desiderai conquistarla. Non aveva umanità. Sembrava anche disgustata. La prima cosa che pensai: era andata più in là di me.»

    Le dinamiche all’interno di un collegio femminile, esclusivo e cosmopolita, sono bizzarre, tese e imprevedibili. E vengono magistralmente descritte dalla Jaeggy, senza remore di nessun genere.

    «Nelle vite di collegio ciascuna di noi, se ha un po’ di vanità, si costruisce la propria immagine, una specie di doppia vita, si inventa un modo di parlare, di camminare, di guardare.»

    E ancora, più sottilmente:

    «Come si vede, non avevo ancora imparato l’arte di mediare, pensavo ancora che per ottenere qualcosa bisognasse andare dritti allo scopo, mentre sono soltanto le distrazioni, la vaghezza, la distanza che ci avvicinano al bersaglio, è il bersaglio che ci colpisce. Eppure con Frédérique usavo una tattica. Avevo una certa esperienza della vita di collegio. Fin dall’età di otto anni ero interna. Ed è nei dormitori che si conoscono le proprie compagne, davanti ai lavabi, nelle ore di ricreazione.»

    Un mondo a parte, vien da dire. Nel quale entrano in gioco inevitabili tattiche sentimentali e intensi legami affettivi. Anche ambigui. Che con candida e schietta audacia Fleur non evita per niente.

    «E piano piano cominciai a parlarle di me quando avevo otto anni. Allora giocavo con i ragazzi al pallone e mi fecero entrare in un lugubre collegio. In fondo a un lugubre corridoio c’era la cappella. A sinistra una porta. Dentro, una madre superiora, diafana, delicata, che si prese cura di me. Mi accarezzava con le sue mani sottili e dolci, sedevo accanto a lei come fosse un’amica. Scomparve un giorno. Al suo posto, venne un’opulenta svizzera del cantone di Uri. Si sa, il nuovo potere odia le favorite di prima. Un collegio è come un harem.»

    La nuova allieva risveglia nella protagonista nuove consapevolezze. La affascina con la sua erudizione, la sua originalità, il suo deciso senso della verità, dell’anticonformismo, di scelte esistenziali alternative.

    «Frédérique mi disse che ero un esteta. Una parola nuova per me, ma che ebbe subito un senso. Da esteta era la sua calligrafia, questo lo capii. Da esteta era il suo disprezzo per tutto. Frédérique nascondeva il suo disprezzo dietro l’obbedienza, la disciplina, era rispettosa. Io non sapevo ancora fingere.»

    Fleur Jaeggy scrive con il bisturi. Senza anestesia. Non teme di chiarire i lati più in ombra e finanche oscuri della vita, di un ambiente, di una cultura, specificamente quella svizzera, che nel romanzo ci svela – come a tutti è capitato di osservare in talune circostanze – ordinata, disciplinata, ossessivamente orientata alla precisione. Ma purtroppo, spesso, come suggerisce l’autrice, sotto sotto incline all’apparenza, predominante sulla realtà, talora segreta e sottaciuta, fino a “imparare” a fingere – obbedienza e rispetto – per mascherare – niente meno – disprezzo. E in fondo, non di rado, una connaturata melancolia, un’angosciante solitudine, imposte dal silente e spopolato ambiente naturale alpino o campagnolo, seppur magnifico.

    «È curioso come nei collegi dove sono stata ci fosse una penuria di maschi nei dintorni. O vecchi o pazzi o guardiani. Nell’Appenzell ricordo dei vecchissimi, storpi, una pasticceria e una fontana. Se si voleva un po’ di mondanità, si andava in pasticceria, non c’era mai nessuno, ma per la strada passava un vecchio. A lungo ho creduto che quelle che sono state in collegio, come Frédérique e me, e un giorno ce ne ricorderemo, possano vivere di niente, quando saranno invecchiate e deluse. Suona la campanella, ci alziamo. Suona ancora la campanella, dormiamo. Ci ritiriamo nelle nostre stanze, la vita l’abbiamo vista passare dalle finestre, dai libri, dall’alternarsi delle stagioni, dalle passeggiate. Sempre di riflesso, un riflesso che sembra raggelato sui davanzali.»

    La scrittura di Fleur è minuziosa ma essenziale, tagliente come un’occhiata. Espressivamente espressionista. Ritrae con poche parole, precise, visuali. E dipinge con frasi rapide, da scatto fotografico. Per esempio, la direttrice del collegio, la signora Hofstetter:

    «Era larga come un armadio, un tailleur blu, una camicia bianca, una spilla. Mi minacciò.»

    Non un particolare in più. Due sole righe come pennellate, ma che bastano per suscitare mentalmente un’immagine.

    Ci sono altri collegi, le ragazze crescono. L’amicizia tra la protagonista e Frédérique si dirada, ma non muore. Con il passar degli anni le loro storie si intrecciano ancora, come le rispettive vicende personali. Ed è un’inestimabile esperienza emotiva seguir le loro tracce. Anche se il destino di Frédérique da adulta non riserva felicità.

    Il romanzo è breve. Poco più di cento pagine. Josif Brodskij, il poeta russo premio Nobel 1987, recensendolo, scolpì in conclusione: «Durata della lettura: circa quattro ore. Durata del ricordo, come per l’autrice: il resto della vita».

    Fabrizio Pezzoli

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