«spagnolette, fichi secchi e mandarini»
Una istruttiva chiacchierata con Arnalda Passera, anziana Ticinese residente in Italia
Varese - La 83enne Arnalda Passera, luganese residente in Italia dal 1964, è un fiume in piena di ricordi interessanti che qui sintetizziamo iniziando subito il suo racconto, incentrandolo sopratutto sul Natale.
Atterrata su un altro pianeta: Roma
«Negli anni’40 – come ci descrive Arnalda – i bambini non ricevevano regali fuori della festività natalizia o del compleanno. Io fui fortunata perché mio padre Angelo mi fece due regali straordinari: una bambola bellissima in ceramica che andammo a prendere a Varese e una cucina economica fatta da lui: ero la primogenita e con la mentalità di allora una figlia poteva divertirsi imparando l’arte della cucina, da cui erano esclusi i maschi, cosa oggi per fortuna superata. Realizzò una vera e propria cucina economica in ferro, bellissima e funzionante a legna! Mi piacerebbe rivederla dato che si trova nella casa di Lugano dalla quale andai via, a 24 anni, con il matrimonio».
Dove si trasferì?
«A Roma… un salto enorme, direi scioccante, per me fu come atterrare su un altro pianeta».
Addirittura?
«Non era come oggi che con internet si conosce tutto il mondo prima di visitarlo. Fino a prima di sposarmi ero stata una volta a Varese per la bambola e diverse volte a Luino per il famoso mercato del mercoledì frequentato anche oggi da ticinesi e svizzero tedeschi, tutto lì».
E come si è trovata a Roma?
«Non così bene. Sono cinquant’anni che leggo la Gazzetta, e poi da 21 anni leggo la sua rubrica “Chi sono cosa fanno” con le interviste agli svizzeri sparsi per tutte le regioni d’Italia dal nord fino alla Sardegna, e ho sempre ammirato il loro felice ambientamento in paesi o città italiane. Per me non è stato così».
Perché?
«Arrivare in una periferia romana fu una specie di trauma, tutto mi fu difficile, dal malfunzionamento della burocrazia alla differente mentalità. Mia figlia mi rimprovera di non aver saputo godermi ciò che la capitale del mondo offriva».
Soprattutto negli anni Sessanta, l’epoca del boom economico e della “dolce vita”.
«In effetti, la vita allora a Roma era diversa da oggi, come credo sia per ogni luogo sulla Terra: c’era umanità. Dal punto di vista ambientale, finanziario e sociale, tutto è cambiato. L’umanità consisteva, per esempio, nel fatto che i bambini erano in strada a giocare all’aperto… A volte il loro vociare era fastidioso, ma tranquillizzava allo stesso tempo, perché sapevamo che erano tutti assieme; poi mia figlia tornava a casa con le ginocchia graffiate perché si era arrampicata sull’albero di prugne nel giardino dei suoi amichetti per mangiare le prugne acerbe, era sporca di terra e felice. Ora i bambini sono felici?»
Non saprei, forse a Natale?
«Lei crede? Io li osservo mentre “chattano” tutto il tempo. Forse non c’è niente di male, la tecnologia mi piace, alla mia età uso Telegram, internet, faccio acquisti online, è utile, ma…».
Ma?
«… non sarebbe meglio insegnare ai bimbi a mollare il digitale e “passarsi” l’allegria delle feste guardandosi negli occhi di persona? Secondo me, l’umanità emerge nel farli crescere nella semplicità, nel guardarsi attorno, nel contatto fisico con gli altri. Nel percepire lo stato emotivo altrui. A Natale, in particolare, l’allegria di noi bambini era vera, e gli adulti, nonostante le loro preoccupazioni, venivano contagiati, perché, ripeto, lo stato d’animo dei ragazzini era autenticamente gioioso…».
Felici con spagnolette e mandarini
Com’erano i suoi natali da bambina a Lugano?
«Noi non dicevamo la “festa di Natale”, ma festa di San Nicolao, patrono della Svizzera. E che buono il dolce San Nicolao, una specie di morbido biscottone speziato che era confezionato con la “fotografia” di questo santo. Io lo mangio ancora oggi».
Facevate l’albero o il presepe?
«Tutt’e due. Il presepe lo faceva mio padre con statuette credo acquistate in Italia, piccole ma di magnifica fattura, le pecorelle, avevano il vello di lana, sembravano vere! L’albero aveva bocce di vetro stupende che poi portai anche a Roma. Era senza le lucine elettriche ma brillava tutto lo stesso: tra le ghirlande d’oro e d’argento e le bocce, con speciali pinzette erano fissate tante candeline e tanti “füset”, in dialetto ticinese, ossia bastoncini che accesi producevano tante stelline. Si spegnevano le luci, restava quella del fuoco nel camino, la lucina sul presepe e il brillio delle tante candeline rosse e dei füset dell’albero. Noi bambini restavamo incantati da quell’albero spettacolare».
C’era un vero spirito natalizio.
«Tutto ci affascinava. Il giorno di Natale, oltre all’ottimo pranzo preparato da mia mamma Ida, c’era un centrotavola che durava fino a Capodanno e che attirava tutta la nostra attenzione di bambini. Su un grande vassoio vedevamo una grande composizione fatta di arachidi col guscio che noi chiamavamo ”spagnolette”, datteri, fichi secchi, noci e mandarini. A noi parevano le migliori leccornìe del mondo! A parte c’erano il panettone ed il torrone. Tutto qui. Oggi tutta questa semplicità può far ridere, ma il senso di abbondanza, allegria e serenità che generava, a pensarci ora, non vale il prezzo di mille regali o di un pranzo in un Palace Hotel. Allegria e serenità non hanno prezzo».
Non trovo le parole per quella magia
Il Natale era sicuramente meno “commerciale”.
«Certo. Intanto non cominciava due mesi prima, come ora che vendono i panettoni da fine ottobre. La festa era molto più sentita, era davvero un evento grandioso per i bambini».
Arrivavano i regali…
«Non solo per quello. Cambiava proprio l’atmosfera, quasi si entrava in un’altra dimensione. Fuori c’era tanta neve e silenzio, in casa le luci, i profumi, il calore e lo stare tutti insieme contenti. Impossibile da descrivere oggi, almeno, io non trovo le parole adeguate per quella magia».
Le credo.
«A proposito dei regali, invece della calza piena di dolcetti della Befana in uso in Italia, noi avevamo i Re Magi che portavano regalini a volte più raffinati da parte dei parenti più ricchi. Mio padre aveva lo stipendio di dipendente del municipio di Lugano, ed eravamo sei figli, perciò dai genitori ricevevamo regali utili. Un cappello, calze di lana, dei guanti, ed eravamo felici. Mio padre realizzò pure una slitta in legno e ci divertimmo subito come matti».
Sulla slitta in città?
«Certo. Intorno alla nostra casa, in Via Ceresio a Pregassona: c’erano tante case unifamiliari, ma anche tanti prati e collinette, oggi il tutto è coperto di palazzoni. Per descriverle cosa era Lugano a metà degli anni ’40, basti pensare che andavamo tutti a scuola da soli, un giorno giocherellavo in mezzo alla strada mentre arrivava un camion, rallentò agevolmente perché allora la velocità era nella media di 20 - 30 km orari, mi spaventai un po’, il camionista mi tranquillizzò con buone parole accompagnandomi a scuola lì di fronte».
Un mondo sparito…
«… che dovrebbe ritornare proprio in questi anni, almeno così dicono le profezie che ascolto sul web (ride ndr.) … Più grandicella presi il treno da Lugano per Mendrisio, e nel mio scompartimento mi caddero dalla tasca ben 10 franchi, me ne accorsi nel fare il biglietto di ritorno. Il bigliettaio allo sportello mi fece un paio di domande e poi mi disse: “ecco il tuo 10 franchi, lo ha trovato un signore nel vagone”. A scuola non c’era il bullismo, c’erano invece l’educazione civica e l’educazione in generale, pensi che prima di lasciare la classe, alle elementari, dovevamo tutti pulire il nostro banco… Ecco, era bello vivere così, con quella umanità lì».
Annamaria Lorefice
lorefice.annamaria@gmail.com
Un dolce di Natale che nello scorso secolo, ma ancora oggi, era molto amato da bimbi e adulti: un morbido grande biscotto speziato che ricorda la figura di Nicolao della Flüe (Flüeli, 1417 – Ranft, 21 marzo 1487), santo della Chiesa cattolica e patrono della Svizzera.
La piccola Arnalda Passera nei primi anni ’40 con il padre Angelo.
Foto degli anni ’40, in discesa sullo slittino nei pressi di Pregassona, senza rischiare incidenti o multe. Archivio Rivista di Lugano