La ricerca svizzera e italiana unite e in prima fila per un farmaco contro il Coronavirus

Anche l’Istituto di ricerca in biomedicina di Bellinzona, in Ticino, partecipa agli sforzi internazionali per sviluppare terapie e vaccini contro il coronavirus. Swissinfo ha colto l’occasione per intervistare il direttore di laboratorio Luca Varani. Vi proponiamo una versione ridotta dell’intervista di Luigi Jorio.

Operativo dal 2000, l’Istituto di ricerca in biomedicina è un centro di riferimento internazionale nel campo dei meccanismi della difesa immunitaria. Nell’istituto di Bellinzona sono stati individuati, tra le varie cose, anticorpi e molecole in grado di combattere i virus responsabili di SARS e MERS.

Le sue competenze sono ora richieste per far fronte all’attuale pandemia di Covid-19. Un consorzio guidato dall’IRB è tra i vincitori di un bando della Commissione europea, la quale ha stanziato quasi 50 milioni di euro a favore della ricerca urgente di nuovi vaccini, terapie e test diagnostici. L’obiettivo del consorzio - a cui aderiscono l’Ospedale San Matteo di Pavia, l’Università di Braunschweig in Germania e l’istituto Karolinska in Svezia - è di sviluppare nuove immunoterapie contro il nuovo coronavirus, ci spiega Luca Varani, direttore di laboratorio all’IRB e promotore del consorzio di ricercatori.

Nuove immunoterapie contro il coronavirus… di che cosa si tratta?
Luca Varani: Inizio con un esempio. Pensiamo a quando da bambini ci ammaliamo di varicella. La prendiamo una sola volta nella vita siccome il nostro sistema immunitario produce degli anticorpi capaci di sconfiggere la malattia appena si ripresenta. Gli anticorpi sono prodotti anche nel caso di un’infezione di coronavirus e sono proprio quelli che ci interessano.

Ci spieghi meglio…
Prendiamo un paziente che è guarito dal coronavirus: nel suo corpo sono presenti gli anticorpi che hanno sconfitto il virus. La nostra idea è di usarli come farmaco per curare una persona malata.

Sulla carta sembra facile. Basta prelevare del sangue a una persona guarita e iniettarlo in un paziente malato?
Abbiamo tre approcci diversi.

Il primo prevede in effetti di prelevare il sangue di pazienti guariti dalla Covid-19, di estrarne gli anticorpi e di somministrarli ai malati. È un metodo semplice e rapido, ma ha lo svantaggio di necessitare continue donazioni di sangue da parte di individui guariti. È un trattamento usato da oltre un secolo. Ad esempio, è stato impiegato in via sperimentale durante l’ultima epidemia di Ebola.

Nel secondo approccio, si prendono dei frammenti di anticorpi presenti nell’organismo di chi è guarito, si rimescolano e si ricostruiscono in laboratorio nuovi anticorpi. È una tecnica sviluppata nei primi anni Novanta e oggi ci sono diversi farmaci sul mercato che sono stati prodotti in questo modo.

Il terzo approccio è invece una specialità dell’IRB. Cerchiamo nel paziente guarito non tutti gli anticorpi, ma solo quelli migliori, cioè quelli che hanno già dimostrato di poter sconfiggere il coronavirus. In seguito, li produciamo artificialmente e li somministriamo come un farmaco. Il vantaggio è che li possiamo produrre all’infinito.

Il virus della Covid-19 potrebbe però mutare. Non si rischia di sviluppare un farmaco dall’efficacia limitata?
Come i batteri, i virus possono effettivamente mutare. È d’altronde per questo motivo che non abbiamo un farmaco contro il virus dell’HIV. Nel caso del coronavirus, le soluzioni sono due: sviluppare un cocktail di due o tre anticorpi o creare degli anticorpi detti “bispecifici”. Questi ultimi rimangono efficaci anche in caso di mutazioni e sono una delle specialità del mio gruppo di ricerca. Abbiamo sviluppato anticorpi di questo tipo già durante l’epidemia di Zika nel 2017.

Quanto tempo ci vorrà prima di disporre di un farmaco specifico per il nuovo coronavirus?
Una volta sviluppati, forniremo questi anticorpi bispecifici all’Ospedale di Pavia, il quale li testerà in vitro sul virus prelevato dai pazienti. I primi risultati a livello scientifico dovrebbero arrivare entro 3-6 mesi. Prima di avere un farmaco omologato ci vorranno, nelle migliori delle ipotesi, almeno due anni. L’aspetto interessante è che le informazioni che otterremo potranno essere usate anche per lo sviluppo di un vaccino.

A livello internazionale, l’IRB si è fatto conoscere per le sue scoperte nel campo dei virus dell’influenza, della SARS e della MERS. In che modo questi progressi possono risultare utili per affrontare l’attuale crisi di coronavirus?
I metodi e i test cellulari che applichiamo oggi per il nuovo coronavirus sono stati sviluppati durante le ricerche non solo sulla SARS e la MERS, ma anche su altre infezioni virali. Inoltre, ci sono degli anticorpi sviluppati nel caso della SARS che funzionano anche per la Covid-19, seppure in maniera molto meno efficace. Ma è già un punto di partenza.
Una cosa va sottolineata: la scienza non è fatta per agire velocemente e non può reagire alle emergenze. Per questo va sostenuta sempre e comunque. Nel 2003 tutti parlavano della SARS, ma poi è finita nel dimenticatoio. Ma i virus che causano la SARS e la Covid-19 sono simili: se si fossero messi a disposizione fondi per sviluppare un vaccino anti-SARS, adesso avremmo probabilmente anche un vaccino per il coronavirus.

in prima fila nella ricerca contro la SARS e la MERS, l’IRB è attualmente consorziata con strutture italiane e tedesche per la ricerca contro il Coronavirus