Scrittori svizzeri: Alla scoperta di un libro
Di Max Frisch ci sarebbero innumerevoli libri di cui consigliare caldamente la lettura. Stavolta scegliamo questo romanzo tascabile di poco prezzo e di misurate pagine (176), scritto nel 1959 e ristampato più volte, sia in tedesco originale sia nella traduzione italiana di Aloisio Rendi per Feltrinelli (prima edizione 1959 nella collana “Narrativa” e via via fino alla settima edizione riveduta del 2010 nella “Universale Economica”, ristampato anche di recente nel 2019 in una nuova traduzione di Margherita Carbonaro), e lasciamoci attrarre innanzitutto dalla presentazione in quarta di coperta. Che spiega solo l’essenziale, scopre quanto basta della trama per stimolare l’interesse del lettore, e soprattutto non rivela gli sviluppi più cruciali della storia e i colpi di scena narrativi, sempre più incalzanti verso la conclusione del romanzo. Cosa che farò anch’io.
Tutto inizia con un viaggio. In verità, l’intera storia è un continuo viaggio. Ma non picaresco, bensì iniziatico: per il protagonista che dà il titolo al romanzo e tuttavia anche per il lettore che si lasci accompagnare e avvincere dalle vicende personali di Walter Faber.
Ecco l’incipit (tutte le citazioni sono nella valente traduzione di Aloisio Rendi):
“Partimmo dal La Guardia, New York, con tre ore di ritardo, a causa di tempeste di neve. Il nostro apparecchio era un Super-Constellation, come sempre su questa linea. Mi sistemai subito per dormire, era notte. Aspettammo altri quaranta minuti sulla pista, neve davanti ai fari, neve asciutta e leggera, mulinelli sulla pista, ma a rendermi nervoso e ad impedirmi di addormentarmi subito non fu il giornale che distribuiva la hostess, la notizia FIRST PICTURES OF WORLD’S GREATEST CRASH IN NEVADA l’avevo già letta a mezzogiorno, ma semplicemente la vibrazione dell’apparecchio fermo coi motori accesi – e poi il giovane tedesco accanto a me, che mi diede subito nell’occhio, non so perché dava nell’occhio togliendosi il soprabito, sedendosi e tirando su la piega dei pantaloni al ginocchio e anche non facendo niente, semplicemente aspettando come tutti noi la partenza, seduto al suo posto, un biondo di pelle rosea, che subito si presentò, prima ancora che s’allacciassero le cinture. Il nome non l’avevo afferrato, i motori rombavano, uno dopo l’altro, nella prova a tutto gas – Ero stanco morto. Ivy m’aveva imbottito la testa per tre ore, mentre aspettavamo l’apparecchio in ritardo, sebbene sapesse che per principio non mi sposo. Ero contento di essere solo.”
Prima pagina del libro e Frisch si mostra subito mirabile narratore. Presenta uno stile preciso, dettagliato, ricco di constatazioni succinte ma efficacemente visive. Ci coinvolge subito nella situazione, tanto da farci sentire seduti accanto a lui sull’aereo in partenza. Spiega in poche righe chi è il protagonista e qual è la sua indole: un uomo attento, pignolo, pratico, insofferente. E abbozza altri due personaggi importanti della storia che seguirà: un passeggero fastidioso, che si rivelerà fondamentale nel prosieguo delle vicende, e una certa Ivy, di cui parlerà più a lungo in seguito.
Ciò che colpisce tout court è senz’altro il suo carattere, «contento di essere solo». E poi quel drastico «per principio non mi sposo», teso a escludere subito qualsiasi storia d’amore a lieto fine. Un’affermazione che sarà invece sconfessata da un altro, successivo, incontro casuale. Questa volta con una giovane donna, destinata a far crollare inconsapevolmente i dogmi su cui Faber ha costruito e fortificato le proprie scelte esistenziali.
“Mi offrì una sigaretta, il mio vicino, ma io presi le mie, sebbene non avessi voglia di fumare, e ringraziai, poi ripresi il giornale, non sentivo bisogno di contatti umani. Ero scortese, può darsi. Avevo dietro di me una settimana faticosa, non un giorno senza riunioni, volevo essere lasciato in pace, gli esseri umani affaticano.”
Altri particolari e pochi educati convenevoli, tutto pur di «essere lasciato in pace».
“(…) il tedesco (quando avevo risposto in tedesco al suo inglese scadente, aveva subito capito che sono svizzero) non fu più possibile farlo smettere. Parlò del tempo, quindi del radar, di cui capiva poco; poi attaccò, come tutti i tedeschi dopo la seconda guerra mondiale, con la fratellanza europea.”
Nelle pagine seguenti, altri dettagli: precisazioni su chi sia il passeggero molesto accanto a lui, e su chi sia Walter Faber, un (tipico?) svizzero, ordinato, freddo, preciso, riservato, facilmente infastidito, specie dall’approssimazione.
“Non so perché mi dava sui nervi, dovevo conoscerla la sua faccia, una faccia molto tedesca. Ci pensai su, ad occhi chiusi, ma inutilmente. Cercai di dimenticare la sua faccia rosea, mi riuscì, e dormii circa sei ore, sovraffaticato com’ero – mi svegliai e tornò a darmi sui nervi.”
L’insistenza nella descrizione di uno sconosciuto, apparentemente destinato a essere dimenticato dopo poche pagine, a questo punto dovrebbe destare l’attenzione del lettore. E lo fa benissimo, poiché il puntiglioso osservatore Faber svela una scoperta assai importante ai fini dell’intreccio. Dato che lo sconosciuto, incontrato per caso, non è affatto destinato all’oblio dopo altre pagine.
“Nessun tedesco voleva il riarmo, erano i russi che costringevano l’America a farlo, una tragedia, io svizzero (sguizzero, diceva lui) non potevo darne un giudizio perché mai stato nel Caucaso, lui sì, che c’era stato, e li conosceva i russi, che solo con le armi si possono educare. Lui li conosceva i russi! Lo ripeté diverse volte. Che solo con le armi si possono educare! Disse, perché tutto il resto ai russi non gli faceva niente – Io sbucciavo la mia mela. Distinguere tra razze dominanti e razze inferiori, come faceva la buon’anima di Hitler, naturalmente era assurdo; ma gli asiatici restano asiatici – Io mangiavo la mia mela.”
Faber non dà giudizi sulle opinioni del compagno di viaggio. Riporta soltanto ciò che dichiara l’intruso. È la mela la cosa più importante in quel momento!
“Leggeva il suo romanzo. A me i romanzi non dicono niente – neanche i sogni”
Un altro squarcio nel ritratto del protagonista. Faber è un materialista disincantato, estremamente concreto, restio alle emozioni, indifferente alle fantasie dei romanzieri e alle vaghezze dei sognatori. Ma non è un superficiale: le sue certezze sono incise a fondo fin nell’animo.
“Non credo al destino o alla Provvidenza. Sono un tecnico e perciò abituato a calcolare le probabilità. Perché destino? Ammetto: senza l’atterraggio di fortuna a Tamaulipas (2.IV), tutto sarebbe stato altrimenti; non avrei mai fatto la conoscenza di questo giovane Hencke, non avrei forse mai più sentito parlare di Hanna, non saprei ancor oggi di essere padre. È impossibile immaginare come tutto sarebbe stato diverso senza questo atterraggio forzato a Tamaulipas. Sabeth forse vivrebbe ancora. Non lo nego: che le cose si siano svolte in questo modo, è stato più che una coincidenza, è stata una catena di coincidenze. Ma perché destino? Per accettare l’improbabile come fatto d’esperienza non ho bisogno della mistica; mi basta la matematica.”
Altre rivelazioni per il lettore attento a cogliere gli indizi della trama: il cognome del tedesco, il collegamento con una certa Hanna, la possibilità di essere padre inconsapevole, una tal Sabeth che risulta morta ma si rivelerà un personaggio fondamentale del romanzo.
Ci sono dunque un prima e un dopo, e il viaggio sull’aereo che effettuerà un atterraggio di fortuna nelle giungle del Centro America è solo il primo. Ce ne saranno infatti molti altri: a New York (dove riemerge la Ivy citata di sfuggita); di nuovo in Centro America con il tedesco conosciuto per caso poiché fratello di un vecchio amico ai tempi dell’ascesa del nazismo; in Europa a bordo di un transatlantico (sul quale fa la conoscenza della giovane Sabeth, che lo attrarrà misteriosamente); in Italia (Toscana, Umbria e Roma) e in Grecia. Il peregrinare del protagonista è incessante: lo ritroviamo a New York, a Caracas, a Düsseldorf, con tappe a Cuba e a Barcellona.
Ma è in Grecia che i fili dell’affascinante ragnatela con cui Frisch ci cattura e avvince si annodano, per poi spezzarsi tragicamente. Svelando una sequela di radicali cambiamenti nell’Homo Faber a causa del terremoto emotivo che lo travolgerà al termine di tanto vagare. Ogni convinzione, anche la più tenace, suggerisce Frisch, non è affatto al riparo da sorprese e rovinose frane. «Le certezze della tecnologia e della ragione non sono certezze. Ci si può perdere».
Lasciamoci sorprendere, e istruire, da questo formidabile romanzo assai moderno, precursore di tempi ancora più confusi.
Fabrizio Pezzoli
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