Vai al contenuto

Quando il meno diventa più… la pittoresca vita di Bruno Carati

    La sua prima mostra a Lugano negli anni ’50 e il successo internazionale del “pittore senza mani”. Il figlio Alan testimone di un’esistenza straordinaria

    Lugano - Al mondo c’è chi spreca, in un modo o nell’altro, la propria vita, ma nel mondo arrivano anche persone capaci di compiere un’esistenza completa e appagante. Queste ultime possono anche avere corpi imperfetti ma posseggono doti perfette per affrontare ogni aspetto dell’esistenza.

    Le loro sono belle storie, quelle che iniziano malissimo ma si conducono e concludono “alla grande”.

    A causa di un parto con forcipe, un desueto metodo noto per il rischio connesso di ledere i centri nervosi, l’artista Bruno Carati, nasce a Milano nel 1941 con gambe e mani paralizzate.

    Nonostante ciò, cresce, studia e lavorerà utilizzando la bocca e giungendo alla fama internazionale come pittore figurativo-espressionista.

    Ancora ragazzo, inizia a farsi conoscere con la sua prima mostra a Lugano, nel 1957. Da quel momento fioccano i premi e gli articoli su molte testate straniere tra cui la United Press Newpictures di New York.

    15.000 sale cinematografiche in tutto il mondo proiettano un documentario sulla sua vita, compresa la RAI. Alcune sue interviste sono vedibili sul web.

    Per una coincidenza, sempre a Lugano ha concluso la sua attività artistica, prima di morire, con l’ultima sua esposizione “Bruno Carati: la mia pittoresca vita, semplicemente senza mani”, nel 2019.

    In Canton Ticino prese anche la patente che gli consentì di guidare l’automobile, utilizzando la bocca.

    La storia eclatante di una famiglia, fatta di tanta allegria e risate, come raccontano gli amici, di problemi risolti con soluzioni semplici e geniali, di incontri con scuole, artisti, intellettuali e persone da aiutare… una vita impossibile da riassumere in poco spazio, ma solo tratteggiabile con il figlio Manuel, per conoscere alcuni dettagli forse mai rivelati prima alla stampa.

    In quale atmosfera è cresciuto lei, data la situazione del papà?

    «L’atmosfera era ottima perché mio padre ha reso normale la sua vita, sempre con spirito allegro. Era una sagoma. Sempre pronto anche allo scherzo. Potrei raccontarle una pletora di scherzi! Era estremamente solare e geniale. Da solo si è costruito il porta rasoio per la barba, il porta cornetta del telefono, un banco con comandi dal quale lui controllava e governava tutta la casa: luci, riscaldamento, cancelli… con questi ausili tutto era agibile».

    Questo atteggiamento gli ha reso facile anche il rapporto con altre persone?

    «Sì, a quelli che all’inizio lo vedevano come il “povero disabile”, ha dimostrato che la vera disabilità è negli occhi di chi guarda. Le racconto un aneddoto sulla sua abilità nel risolvere problemi pratici e poter fare ciò che voleva. In Africa, mio nonno materno costruiva una diga, e, come richiesta di protezione divina per un delicato intervento chirurgico in Italia di mia madre tredicenne, egli fece erigere una campana a Kariba. Mia madre si ristabilì e dopo tanti anni, nel 2013, fu esaudita la promessa fatta alle nozze da mio padre di vedere un giorno la campana. Io e mia moglie li precedemmo per allestire il gabinetto dell’abitazione africana con un paio di mobiletti inventati da mio padre per la sua autonomia e usati già in casa. Poterono, così, fare un bel soggiorno a Kariba e ammirare finalmente la campana».

    Un bel ricordo… Da ragazzo, lei aveva la possibilità di vedere all’opera suo padre mentre dipingeva?

    «Lo studio è sempre stato in casa, anche nell’ultima abitazione al posto del soggiorno avevamo lo studio. Mia madre Angela e io non siamo mai stati esclusi dal suo lavoro creativo, anzi, mia madre è stata utilizzata come modella per un abito disegnato da lui».

    Le sue invenzioni per l’autonomia personale sono state utili anche ad altre persone?

    «Sono state adattate a tutti coloro che gli hanno chiesto una mano. Uno degli adattamenti più particolari è stato il “bastoncino”: la cosa più semplice, con cui controlli tutto, batti a macchina, dipingi, telefoni. Questo metodo è stato adattato, agli inizi degli anni ’80, per un ragazzo che però non riusciva a tenerlo in bocca. Quindi, mio padre fece un prototipo di caschetto… con i pezzi del meccano! In corrispondenza della fronte era fissato il bastoncino che il ragazzo usò regolarmente».

    Sua madre come ha incontrato suo padre?

    «Anche lei ha iniziato la sua vita con un ostacolo, infatti a due anni ha avuto un ictus, cosa rara per i bambini della sua epoca, provocandole la paresi del lato destro del corpo, per cui ha potuto usare fino ad oggi solo la mano sinistra. Nel ’47 lei e mio padre si conobbero a scuola. Era la sola scuola per alunni disabili fisici presente a Milano. Dopo essersi persi di vista, per combinazione si sono incontrati nel ’69 in casa di amici, si sono innamorati e sposati».

    Anche sua madre è un grande personaggio.

    «I soldi per pagare del personale non c’erano. Con un braccio solo accudiva mio padre e cresceva me…Hanno avuto una bella storia d’amore. A mia madre lui manca molto»

    Lei osservava suo padre quando era ragazzo? Era preoccupato per lui?

    «No, essendo nato in quella situazione che per me era normale, tutto si è svolto semplicemente. Il problema erano le persone normodotate, perché quando siamo arrivati a Carnago in provincia di Varese, nel 1981, all’inizio alcuni genitori dei miei compagni di classe rimasero un po’ colpiti dalla nostra “strana famiglia”».

    E poi?

    «Siccome ero tra i più bravi della classe, gli altri alunni mi frequentavano per i compiti dopo la scuola. Quindi, con la conoscenza e l’amicizia, le cose si sono lentamente smorzate».

    Qual è l’insegnamento più grande che ha ricevuto dai suoi genitori?

    «Innanzitutto che non bisogna mai arrendersi di fronte alle difficoltà, Che, comunque una soluzione la si trova sempre, non bisogna mai buttarsi giù. Problemi ce ne sono sempre nella vita, con la volontà si possono superare tutti, anche le avversità più complicate».

    Così facendo, riuscivano a incoraggiare anche gli altri disabili?

    «Certo. Mio padre ha sempre detto loro: “Guardate che è una forma mentis dire di non poter fare quello che fanno gli altri”. Spesso, per il fatto di essere tenuti sotto una campana di vetro o per la loro stessa pigrizia, si abbandonano alle cure degli altri. Invece deve essere l’orgoglio personale a decidere che ”tutto quello che posso, lo faccio io!”».

    Ancora oggi persone in difficoltà chiamano lei? Cosa cercano?

    «Spunti, idee per trovare soluzioni ai loro disagi. Mi chiedono dove mio padre avesse trovato il famoso bastoncino, e tante altre cose che chiedevano anche a mio padre… ».

    Ci sono stati momenti bui per lui, legati alla sua problematica fisica?

    «In realtà non ne ha mai avuti. Era una persona estremamente intelligente. Se aveva un problema doveva risolverlo. Per i dispiaceri più comuni, quelli che hanno tutti, aveva una marcia in più per affrontarli».

    Quali considerava le sue gioie più grandi oltre al riconoscimento internazionale delle sue opere? Immagino il matrimonio, quando nacque lei…

    «(Ride n.d.r.)… la sua gioia immensa, quella che ha sempre dichiarato? Guidare l’automobile! Dapprima si era fatto costruire delle automobiline a tre ruote. In quel periodo, nel ’98, lavoravo per le Ferrovie federali svizzere ed ebbi la dritta che era molto più semplice omologare i veicoli per i disabili in Svizzera. Abbiamo proposto le nostre idee ad un ingegnere della Motorizzazione Ticinese che ci aveva dato parere positivo, cioè realizzare un veicolo gestibile soprattutto con la bocca. Mio padre dopo aver ottenuto la patente svizzera, perché aveva un recapito in Ticino, ha potuto finalmente guidare con grande felicità la sua auto».

    Ha mai sentito suo padre dire «se avessi l’uso delle mani potrei fare questo o quello…»?

    «Sì, quando dopo una mia “malefatta” da adolescente, mi ha detto che con le mani funzionanti avrebbe potuto darmele di santa ragione!»

    lorefice.annamaria@gmail.com

    Bruno Carati (1941- 2020) all’età di quattordici anni fa parte della neo fondata Associazione Internazionale Artisti che Dipingono con la Bocca o col Piede - V.D.M.F.K. con sede nel Liechtenstein. Dalla prima mostra internazionale, a 17 anni, nel ’57, all’hotel Eden di Lugano inizia la sua fama internazionale quale pittore figurativo espressionista.

    Anni 70, Bruno Carati sulla bicicletta da lui ideata, insieme alla moglie Angela e al figlio Manuel.

    Appassionato di fotografia: Autoscatto

    Alla guida con la bocca

    Mentre scolpisce