La Svizzera: una delle più antiche democrazie al mondo festeggia a febbraio i primi cinquanta anni del diritto di voto e di eleggibilità delle donne.
E’ proprio così; tra le lotte più sofferte e lunghe della storia vi è sicuramente quella per il diritto di voto. Se è vero che già nel lontano 1893 il primo Paese a concederlo fu la Nuova Zelanda, è altrettanto vero che, ancor oggi, in alcuni territori i diritti politici delle donne - ma ancor più quelli sociali, civili ed economici - non sono per nulla scontati: in Arabia Saudita, ad esempio, le donne sono state legittimate a votare per la prima volta solo pochi anni fa. Qui, la conquista di semplici libertà personali è quasi un miraggio: le saudite non possono per recarsi in ospedale senza il loro mahram (il “guardiano” è un uomo della famiglia: padre, fratello, zio paterno o figlio) o sposarsi. Insomma quella dell’emancipazione femminile è, o è stata, una strada lunga e tortuosa da percorrere…
Anche in Europa, il riscatto femminile si impone con tempi e modi diversi. In cima alla classifica ci sono i Paesi Scandinavi dove si comincia a porre attenzione al tema della parità dei diritti prima della Grande Guerra e perciò oggi possono vantare una rappresentanza femminile in Parlamento superiore al 70%. Mentre Germania, Austria, Regno Unito e Irlanda- così come Russia e Canada- sanciscono il voto alle donne nel 1918, le francesi e le italiane vanno alle urne rispettivamente nel 1944 e 1945. Nel civilizzato vecchio continente alla fine della Seconda Guerra rimanevano escluse dal voto, e quindi dall’eleggibilità, solo le portoghesi, le monegasche e le svizzere!
Una lotta durata più di centoventi anni …
La storia dell’emancipazione delle donne nella Confederazione ha però origini lontane, poiché le prime Società femminili nascono nelle grandi città tra la fine dell’800 e i primi anni del ‘900 e rivendicano da subito il diritto di voto. La più attiva è senza dubbio l’A.S.S.F. -Associazione svizzera per il suffragio femminile - che sin dal 1929 lancia numerose petizioni federali e cantonali a favore della concessione del voto che purtroppo falliscono a causa del sostanziale disinteresse da parte della Politica, tradizionalmente gestita dagli uomini. Fatto non trascurabile: ci sono anche donne, non poche, che condividono per anni il pensiero dominante di mantenere un ruolo subordinato nella società rispetto all’uomo e dedicare il proprio tempo solo alla cura della casa e della famiglia .
Al termine delle due guerre mondiali, le cittadine svizzere sperano però di veder ricompensato - come avviene per le colleghe europee - l’impegno reso nelle fabbriche, nei campi, nel servizio civile e nell’assistenza, come quello svolto nella Sezione “Esercito e Focolare”, ma rimangono deluse. In particolare, la clamorosa sconfitta elettorale del ’59 segna un’importante tappa storica per la storia del suffragio femminile in Svizzera. Se da un lato il risultato della votazione non spinge le donne a scendere in piazza a protestare energicamente e prevale perlopiù un sentimento di rassegnazione, dall’altro il movimento femminista si attiva introducendo il diritto di voto a livello cantonale e comunale nelle aree in cui la popolazione si era dimostrata favorevole al cambiamento: Vaud, Ginevra, Neuchâtel e successivamente a Basilea. Un precedente che apre la strada ad una riforma epocale.
La faticosa marcia verso la conquista del voto è favorita, pochi anni dopo, da un’imbarazzante situazione politica che si crea nel 1963 quando la Svizzera aderisce al Consiglio d’Europa, ma non può firmare la Convenzione sui diritti dell’uomo poiché ancora non riconosce il principio di uguaglianza tra i sessi. La firma con riserva della Convenzione prospettata dal governo federale suscita l’indignazione dell’attivista Emile Lieberherr:
“La Convenzione del Consiglio d’Europa per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali potrà essere firmata solo quando non ci saranno più riserve sul diritto di voto. La parità giuridica di genere è un importante prerequisito per il conseguimento effettivo dei diritti umani. Tutte le riserve proposte mettono in discussione la credibilità del nostro Paese come Stato di diritto e democrazia”.
Nel 1969 le suffragiste dell’ASSF marciano su Berna per sensibilizzare e coinvolgere l’opinione pubblica sull’importanza del voto femminile. Il 7 febbraio 1971 i tempi sono finalmente maturi e la raccomandazione del Consiglio federale di votare a favore è accettata dal 65,7% degli elvetici (34,2% voti contrari).
Si può ipotizzare che le ragioni della tardiva approvazione sono sostanzialmente due: la specificità del sistema politico svizzero, che prevede approvazioni a livello federale, cantonale e comunale e l’atteggiamento conservatore e miope del Tribunale federale tradotto nel rifiuto di includere le donne nel termine “svizzeri”, citato nella Costituzione. L’introduzione del diritto di voto e eleggibilità delle donne modificherà infatti l’articolo 74 della Costituzione federale del 29 maggio 1874.
Il giorno in cui gli uomini dissero no
Oggi i diritti politici delle donne sono da tempo assodati e non ci si ricorda più, e le più giovani forse nemmeno immaginano, l’impegno, la frustrazione e la fatica profusa dalle pioniere per far capire l’importanza della conquista del voto. E’ necessario invece sottolineare che la parità di genere non è un fatto unicamente femminile, bensì riguarda l’intera collettività. Questo cinquantesimo anniversario è proprio l’occasione giusta per ricordarcene insieme a Clare O’Dea, scrittrice irlandese di nascita e svizzera di adozione, e al suo commovente romanzo dal titolo “Il giorno in cui gli uomini dissero di no”.
Le storie delle quattro protagoniste: Vreni, Margrit, Esther, Beatrice e del piccolo Ruedi sono ambientate nella Svizzera degli anni ’50 e nel giorno della catastrofica votazione del 1^ febbraio 1959 le loro vite si intrecciano, affrontano momenti drammatici e provano a cambiare il loro destino.
La fatica e la rassegnazione fanno parte della vita di Vreni che si occupa senza sosta della fattoria, della casa, del marito e dei figli grandi e di Ruedi, il bimbo che ha in affido. Dipende economicamente dal marito e sogna per la figlia Margrit, trasferita in città, un futuro migliore del suo. La felicità di Margrit per il suo nuovo impiego è brutalmente minacciata dalle viscide intenzioni del suo principale che la ricatta: mobbing si direbbe oggi. La ragazza vive quindi una pesante frustrazione e non sa come uscirne, ma ecco che una Vreni nuova: energica, lucida e determinata risolve la situazione appena prima di entrare in ospedale per l’operazione programmata. Esther è una donna senza diritti, abbandonata dal debole marito e a cui hanno anche tolto il figlio (il piccolo Ruedi) a causa della vita socialmente inaccettabile che conduce. Fortunatamente Beatrice, medico mancato e bravissima responsabile amministrativa dell’ospedale in cui è ricoverata Vreni, le procura stanza e un lavoro come donna delle pulizie nello stesso ospedale. In quella domenica di febbraio, Esther è di turno e casualmente scopre che Vreni, in coda allo sportello, è la madre che ha in affido suo figlio. In preda a un turbinio di emozioni, implora Beatrice di aiutarla a riavere legalmente Ruedi con sé: insieme al destino di tutte le svizzere quel giorno è in gioco anche quello di Esther e di suo figlio. Beatrice, deus ex machina di questa vicenda, è la donna emancipata, forte e impegnata a livello cittadino per il riconoscimento dei diritti che però, come le altre protagoniste, è vittima di una profonda ingiustizia. Non riesce a spiegarsi (o forse sì) perché gli uomini si ostinino a decidere per le donne e non vogliano trattarle da pari. Ma tutto fa credere che non si arrenderà tanto facilmente…
Un racconto che parla di solidarietà femminile, dignità, gentilezza, ricerca dell’indipendenza e riscatto sociale, ma soprattutto invoca, pur velatamente, l’agognata parità dei sessi. Una parità di diritti che è ancor oggi una chimera, a causa di pregiudizi e vecchi retaggi culturali che ne impediscono la completa realizzazione.
Il libro è uscito alle stampe in lingua inglese ed è stato tradotto nelle tre lingue nazionali da un team tutto femminile. Ringrazio l’autrice Clare O’ Dea e la traduttrice della versione italiana Anna Rusconi perché è stata una lettura davvero toccante e illuminante. Sin dal titolo traspare quel senso di amarezza, delusione e inuguaglianza che le quattro donne vivono, a livello personale e collettivo, ma la lettura suggerisce anche la presenza di una forza silenziosa e nascosta che lotta per il bene dell’umanità intera. Ecco perché consiglio a tutti - ma soprattutto agli uomini - di leggere questo bel romanzo.
Altri approfondimenti sul profilo Instagram della Gazzetta Svizzera nella rubrica #50annididiritti
Antonella Amodio
SOCIETÀ SVIZZERA DI MILANO
© Donald Brun, 1954, Frauenstimmrecht Ja – 20/21. Februar
Foto: Museum für Gestaltung Zürich, Plakatsammlung, ZHdK. Con l’autorizzazione di Roland Kupper.
© Orell Füssli AG, Lasst uns aus dem Spiel!, Frauenstimmrecht, Nein, 1968
Foto: Schweizerische Nationalbibliothek, Graphische Sammlung: Plakatsammlung
Con l’autorizzazione di Orell Füssli Ltd.
© Ambroise Fontanet, Si vous ne voulez pas ça ! Votez non contre le suffrage féminin. Bibliothèque de Genève, Da 1198
Con l’autorizzazione di Ambroise Fontanet
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