È tempo di pulire lo spazio!

È rossocrociata la prima navicella spaziale che pulirà lo spazio: un satellite di 400kg con quattro lunghi bracci robotici per intrappolare grossi detriti.

ClearSpace SA è la start up del Canton Vaud, fondata da un team di ricercatori dell’Ecole Polytechnique Fédérale (EPFL) di Losanna, vincitrice della gara per la realizzazione del satellite che avrà il compito di recuperare pezzi di sonde, razzi o utensili dispersi nell’orbita terrestre durante le missioni spaziali.

Con un budget del valore di 100 milioni di euro, in gran parte finanziati dall’Agenzia Spaziale Europea, nell’ambito del progetto di sicurezza spaziale ADRIOS (Active Debris Removal In-Orbit Servicing), la Clear Space 1 prevede già nel 2025 di agganciare al volo e riportare nell’atmosfera il primo oggetto lasciato in orbita di smaltimento tra 801 km e 664 km di altitudine. Si tratta di un adattatore VESPA per il carico utile, acronimo di VEga Secondary Payload Adapteur, strumento conico che pesa 112 kg, parte di un razzo Vega lanciato in orbita nel 2013.

In questa difficile e pionieristica missione ci sono ben due speciali “prime volte”. È la prima volta al mondo che si tenta di catturare un oggetto “non cooperativo”, cioè un oggetto che ruota su sé stesso senza controllo, ed è anche la prima volta che l’ESA affida a terzi lo sviluppo di un servizio completo, invece di gestire l’intervento in autonomia e impegnando, tra l’altro, una considerevole somma di denaro.

Con ClearSpace collaborano un consorzio di imprese e industrie provenienti da otto Paesi europei e alcune realtà svizzere, altamente specializzate nel settore aerospaziale: come, ad esempio, l’Osservatorio Zimmerwald dell’Istituto Astronomico dell’Università di Berna che studierà la precisa traiettoria per raggiungere il detrito, la NanoSpace che metterà a punto la “centralina di comando” dei quattro bracci della navicella e ancora la Micro-Cameras & Space Exploration di Neuchâtel, azienda specializzata in imaging spaziale, che svilupperà le microcamere per la visione del satellite durante la navigazione.

Il tema degli space debris è da tempo all’attenzione degli scienziati ed è stato oggetto, in particolare, dell’ottava conferenza europea che si è svolta dal 20 al 23 aprile scorso. Ciò che preoccupa i dirigenti dell’ESA sono le micro particelle che viaggiano ad alta velocità e che non sono rilevabili con i telescopi - benché sofisticati - attualmente in dotazione. Basti pensare che nel 2016 un minuscolo detrito di 1mm ha perforato il pannello solare del satellite per l’osservazione della Terra Copernicus Sentinel 1° provocando un sensibile calo nella produzione di energia elettrica.

Grandi e piccoli, i satelliti non più in uso, si accumulano nell’orbita terrestre bassa fino a quando non si decompongono, deorbitano, esplodono o entrano in collisione con altri oggetti, riducendosi poi in piccolissimi pezzi. Un problema senza dubbio, una sfida importante per l’umanità e anche, perché no? Un nuovo mercato da esplorare.

E i dati sono impressionanti:
• 8000 tonnellate di materiali abbandonati nello spazio, di cui ben il 60% causati da rotture di veicoli spaziali o razzi;
• 2500 satelliti interi inattivi;
• 130 milioni di piccoli detriti, tra 1 mm e 1 cm, non ancora tracciati.
Inoltre, sono più di 6.000 i satelliti lanciati dal 1957, anno in cui lo Sputnik fu mandato in orbita intorno alla Terra; di questi solo 800 sono ancora operativi, mentre circa l’85% degli oggetti spaziali galleggia nell’atmosfera[1]. Con una semplice, ma efficace similitudine Johann - Dietrich Wörner, direttore generale dell’ESA, ci fa cogliere la vera essenza del problema: “Immaginate quanto sarebbe pericoloso navigare in alto mare se tutte le navi perdute nella storia continuassero a fluttuare sull’acqua!”

L’immagine di milioni di oggetti inanimati che orbitano in un movimento perpetuo, ci ricorda la sindrome di Kessler. Teoria del 1978 secondo la quale all’aumentare dei detriti in orbita aumenterebbe in maniera esponenziale anche il rischio di collisioni, scatenando una reazione a catena che impedirebbe di fatto l’esplorazione dello spazio per molte generazioni. In realtà, senza scomodare questo scenario apocalittico, bisogna dire che la stazione spaziale internazionale (ISS) non è in pericolo perché in grado di evitare detriti fluttuanti e perché la sua copertura è molto resistente, ma restano comunque reali due possibili pericoli[2]:
• lo scontro di frammenti di spazzatura vaganti - grandi come palline da tennis - con i satelliti di comunicazione che provocherebbe rotture dei sistemi di protezione, la perdita dei servizi legati alle previsioni meteorologiche, disfunzioni delle telecomunicazioni e dei sistemi GPS. E l’impatto di piccoli detriti – non più grandi di granelli di sale –in grado addirittura di perforare una tuta spaziale con gravissime conseguenze per gli equipaggi.
• la caduta di oggetti sulla Terra.
Quest’ultima probabilità non è affatto un’eventualità remota. La NASA ci segnala che la forza di gravità attrae sulla superficie terrestre un frammento spaziale a settimana, vale a dire fra le 50 e 100 tonnellate all’anno! Ne è un esempio la recentissima vicenda del razzo cinese, Lunga Marcia 5B, che dopo il lancio dello scorso aprile ha cominciato a comportarsi come un “veicolo passivo” e a tendere, per effetto dell’attrazione, verso la Terra. Peraltro, la stessa sorte l’aveva subita la precedente versione del razzo, caduto lo scorso anno sull’Africa occidentale sbriciolandosi in milioni di frammenti.

Altro caso cinese è Tiagong1: la navicella lanciata in orbita nel 2011 e dismessa nel 2013. La sua struttura è rimasta in attività per alcuni anni finché, nel 2016 il veicolo ha iniziato a scendere in maniera incontrollata verso la Terra, atterrando - anche in questo caso molto fortunatamente - in una zona non abitata dell’oceano Pacifico meridionale a circa 780 chilometri a Est delle isole Samoa.

L’intesa attività delle missioni è destinata a crescere nella prossima decade (dal 2010 il numero di oggetti in orbita è aumentato di ben 16 volte) e conseguentemente anche la necessità di mettere in atto misure di “recupero”, come appunto la navicella svizzera ClearSpace. Se anche, ipoteticamente, da oggi si vietassero tutti lanci nello spazio, gli studi dimostrano che il mare di immondizia fluttuante continuerebbe a crescere, poiché le collisioni tra gli elementi generano detriti freschi in un “effetto a cascata”

Quindi, che fare contro l’inquinamento spaziale?
Ognuno ha una proposta: secondo la NASA, pulire lo spazio e risolvere i rischi associati ai detriti dipende dalla prevenzione dell’accumulo di più rifiuti e in parte dalla loro rimozione attiva, mentre l’ESA punta a sviluppare nuove tecnologie per evitare che si creino nuovi detriti e a cercare rimedi per eliminare i satelliti più grandi presenti sulle rotte più popolate. Il Centro Spaziale Tedesco (DLR) suggerisce invece di far deviare la traiettoria del satellite spazzatura colpendolo con un laser. Così facendo, esso verrebbe spinto nell’atmosfera e si distruggerebbe con l’attrito con essa.

Tutto ciò, però, deve tenere conto di una delicata e ancora non risolta questione legale: quella di potersi effettivamente disfare di un detrito spaziale che NON appartenga al proprio Stato!

E poi c’è l’ONU che ha proposto l’introduzione di una tassa sui lanci che finanzi le attività di pulizia dello spazio, ma come spesso succede le decisioni politiche non sono affatto rapide. Insomma, si ha un po’ l’impressione che il grido di allarme degli esperti sull’argomento non sia proprio una priorità dei governi “esploratori dell’universo” e che, come è già successo per il riscaldamento globale, gli interventi di concertati fra gli Stati siano già tardivi.

Auguriamo quindi buona fortuna a ClearSpace1 e a tutte le altre future nuove soluzioni per lo smaltimento e il riciclo dei rifiuti celesti.

Antonella Amodio
Società Svizzera di Milano

[1] “Upside Risk”, Numero 7, novembre-dicembre 2016.
[2] Nel 2019, ad esempio, l'India ha fatto esplodere uno dei suoi satelliti in orbita attorno alla Terra, creando centinaia di frammenti che minacciavano di scontrarsi con la Stazione Spaziale Internazionale.

Credit: ESA

Credit: ESA