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L’intelligenza artificiale, una sconosciuta da affrontare di petto

    Cosa unisce il cioccolato – di cui tutti conosciamo gusti e consistenze – e l’intelligenza artificiale, questo termine sconosciuto pochi anni fa e oggi sulla bocca e (probabilmente) nella tasca di tutti? I due temi che apparentemente hanno poco da condividere hanno dominato le relazioni dell’85° congresso. Raffaele Sermoneta, presidente dell’Unione giovani Svizzeri, ha coordinato una tavola rotonda con tre oratori di spicco che hanno provato a fare ordine in termini di definizioni, competenze e limiti dell’intelligenza artificiale.

    Ma cosa è esattamente l’intelligenza artificiale? Per disporre di una premessa per poterne discutere è venuto in soccorso il prof. Gaetano Affuso che si è concentrato sulla definizione di questo termine. Per farlo si è avvalso di una presentazione che, ha ammesso, è stata creata proprio attraverso l’intelligenza artificiale. L’IA è una macchina che fa qualcosa che l’uomo non sa o non vuole più fare. Si tratta in ultima analisi di chiedersi per quale motivo l’IA sia esplosa.

    L’intelligenza artificiale nasce negli anni ‘50. Non era però facile dimostrare che una macchina fosse in grado di pensare e di apprendere. Eppure nel 1958, il New York Times citava «compare una nuova meraviglia tecnologica (era un computer). Il cervello elettronico che insegna a sé stesso. Nel giro di un anno sarà in grado di percepire, riconoscere e identificare ciò che lo circonda, senza bisogno di controllo o addestramento da parte dell’uomo». Non è forse questa una buona definizione di intelligenza artificiale? Si pone però la questione a sapere perché per 60 anni questa tecnologia è restata per certi versi “dormiente”. La risposta, secondo Affuso, è chiara e sta nella mancanza delle tecniche e serie di dati. L’intelligenza artificiale è, per definizione, affamata di dati e dagli anni ‘50 ad oggi si è colmata la mancanza di dati, che oggi sono oggetto di vere e proprie lotte. Nel frattempo l’IA è esplosa e nascono programmi nuovi e che fanno nuove cose. Programmi che traspongono testi in video o in immagini, o audio. Oppure programmi come chatgpt con cui si può interloquire e che rispondono direttamente. Cosa aspettarsi dunque da questa tecnologia? L’IA, come paventato da molti, prenderà il posto dell’uomo? Secondo Affuso la risposta è che l’uomo è chiamato ad utilizzare la macchina per far fare quello che non fa o non vuole più fare.

    Un albergo sulla luna? «Dobbiamo collaborare con l’IA».

    E dunque, quali sono le premesse per dialogare e dominare questa tecnologia? Quali intelligenze siamo chiamati a sviluppare per collaborare con l’IA? L’interrogativo occupa da tempo il dr. Enrico Tombesi della Fondazione Golinelli. L’IA, così li ha definiti Tombesi, sono nuovi compagni di studi. Attraverso un esperimento concreto con le persone in sala si è presentato un dialogo con uno strumento di IA. Per generare un’immagine mentale che può suscitare un racconto – e che può cambiare da persona – è stato utilizzato un programma (DALL-E). Attraverso il programma si è tentato di creare un’immagine accattivante per pubblicizzare il primo albergo sulla Luna. Per farlo il programma di IA necessita però delle indicazioni, ciò che ha illustrato come, per collaborare con l’IA, sia necessario fornire informazioni: nell’esperimento in sala si trattava di aggettivi, di emozioni che deve suscitare e lo stile con il quale vogliamo rappresentare il futuristico albergo. Fornendo queste informazioni (attraverso un cosiddetto prompt) si ottiene un’immagine, che può variare anche in base alle stesse informazioni. L’immagine sortita può successivamente essere modificata attraverso un’ulteriore collaborazione con il programma, dunque “dialogando”.

    Ma se questo è il mondo con cui tutte le professioni a breve dovranno confrontarsi, quali intelligenze è necessario sviluppare? Tombesi ha mostrato che per tutte le tecnologie dopo gli anni ‘50, dalle schede perforate all’IA con i chatbot, la competenza necessaria stava e sta nel dialogo con la macchina. Sono importanti la completezza delle informazioni e oggi i chatbot parlano come noi, per altro in più di 50 lingue. Se vogliamo collaborare occorre dunque cercare di capire chi sono questi particolari compagni di classe. Contrariamente all’umano il chatbot ha emozioni simulate, apprendono attraverso miliardi di testi, e necessitano di informazioni esplicite fornite dall’utente (il chatbot va istruito).

    La vera sfida e domanda centrale è dunque: collaborare o delegare? Per dialogare con il chatbot è necessario collaborare. Attraverso la delega – ad esempio farsi fare i compiti dall’IA – il rischio è di essere esclusi e sostituiti da IA ed essere dipendenti dall’IA. Collaborando è possibile svolgere nuovi lavori, aumentando la produttività personale e indirizzando lo sviluppo di nuove soluzioni.

    I limiti dell’IA, tra governance e dipendenze

    Il dr. Aldo Pisano, della società italiana per l’etica dell’IA, si è in seguito occupato di chiarire i limiti dell’IA, e dunque quale sia il margine tra responsabilità individuale e quella dei produttori? Questa non è sempre chiara, soprattutto quando si vedono i ragazzini completamente dipendenti dai telefonini.

    Dunque, quando parliamo di etica dell’intelligenza artificiale, stiamo discutendo le modalità di coabitazione tra essere umano e macchina di modo che siano inclusivi e il più possibile facenti riferimento a strumenti democratici. Devono essere, secondo Pisano, sistemi non invadenti, soprattutto in relazione alla privacy. Vi sono quindi relazioni con la sfera del diritto e con la responsabilità educativa. Un problema alla base di questa coabitazione è la tendenza a considerare la macchina infallibile. Ma l’IA continua a reindirizzare sempre sugli stessi indirizzi, sugli stessi temi, sulle stesse posizioni. Questo, in assenza di un controllo, è fortemente problematico e limitante. È correlato a strumenti di controllo e rafforzato dalla dopamina che aumentano la dipendenza. Questa è una sfida, conclude Pisano.

    Angelo Geninazzi

    L’immagine della pubblicità dell’albergo sulla luna, sortita dal “prompt” del Dr. Tombesi

     

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