La Svizzera e la Cina intrattengono relazioni bilaterali già dal 1950. Ma i rapporti tra il piccolo Stato democratico e la grande potenza comunista sono talvolta complicati. E lo saranno certamente ancor più in futuro, poiché nell’ambito dell’inasprimento delle relazioni internazionali, la pressione sulla Svizzera sta aumentando, affinché assuma una posizione più chiara.
E la Cina ha reagito immediatamente: la Svizzera non avrebbe dovuto immischiarsi negli affari interni del paese, scriveva Wang Shiting, l’ambasciatore cinese a Berna, nel marzo 2021. Egli evocava “accuse infondate” e “fake news”. Alcuni giorni prima, il ministro degli affari esteri Ignazio Cassis aveva presentato la futura “Strategia Cina” del Consiglio federale, sollevando la questione dei diritti umani e del trattamento delle minoranze da parte del regime cinese. Il ministro aveva parlato in tono inusualmente chiaro, evocando ad esempio «tendenze sempre più autoritarie». Subito dopo, Wang Shiting aveva pubblicamente accusato alcuni svizzeri di attizzare il confronto ideologico: «Questo non aiuta lo sviluppo delle nostre relazioni».
Un approccio precoce
I contatti tra la Svizzera e la Cina hanno una lunga storia. Essi sono complessi e complicati. La Svizzera è stata uno dei primi Stati occidentali a riconoscere la Repubblica popolare maoista nel 1950. Dopo gli anni ’80, la Svizzera intrattiene ampi scambi bilaterali con Pechino. Inoltre, da oltre 30 anni, sostiene dei progetti che servono al trasferimento di conoscenze e tecnologie. Oggi, questi ultimi comprendono in particolare progetti di aiuto allo sviluppo, che hanno lo scopo di aiutare la Cina a lottare contro il riscaldamento climatico. Infine, dal 1991, esiste un dialogo sui diritti umani, nell’ambito del quale i ministri degli affari esteri dei due paesi discutono ogni anno la situazione dei diritti umani in Cina. Per la Svizzera ufficiale che condivide le critiche degli altri paesi sulla situazione precaria degli Uiguri nello Xinjiang, questo dialogo è tuttavia in sospeso dal 2019.
Uno dei principali paesi d’esportazione
Le relazioni economiche hanno da sempre un’importanza particolare. L’esempio del costruttore lucernese di ascensori Schindler mostra bene l’approccio economico precoce tra i due paesi. Schindler è di fatto la prima impresa industriale occidentale ad aver stipulato una joint-venture con i Cinesi. Oggi possiede sei filiali in Cina, beneficia del boom della costruzione nelle metropoli cinesi e partecipa a numerosi prestigiosi cantieri. Attualmente, la Cina è il terzo mercato d’esportazione della Svizzera dopo la Germania e gli Stati Uniti. La Svizzera è il primo paese dell’Europa continentale ad aver concluso un accordo di libero scambio con la superpotenza asiatica. Entrato in vigore nel 2014, questo garantisce vantaggi concorrenziali: le imprese beneficiano di un accesso agevolato al mercato, esportano senza dazi doganali o a tariffe ridotte.
Come la Svizzera favorisce la Cina
I due paesi sono fieri di essere stati dei pionieri in ambito bilaterale. La Svizzera ufficiale ritiene che il suo ruolo consista nel costruire dei ponti; verte su un dialogo “costruttivo e critico” e si mostra reticente nel pronunciare critiche o sanzioni. Desidera fornire dei miglioramenti collaborando con la Cina. Per il governo cinese, queste molteplici cooperazioni sono interessanti sul piano politico: vede in questo piccolo Stato neutro una passerella verso l’Europa.
I due paesi hanno scambi regolari ai massimi livelli politici. Tuttavia, ci sono già stati alcuni disaccordi. Numerosi svizzeri si ricordano della visita di Jiang Zemin nel 1999. Furioso di vedere i Tibetani manifestare nella città di Berna – ed esercitare così, come è spesso il caso in Svizzera, uno dei loro diritti democratici –, il capo di Stato cinese ha fatto attendere il governo svizzero e, visibilmente irritato, ha interrotto il ricevimento ufficiale. Quando la presidente della Confederazione di quel tempo, Ruth Dreifuss, affrontò la questione dei diritti umani, la situazione si degradò ulteriormente. Alla fine, Jiang Zemin dichiarò: «Avete perso un amico».
Il regime controlla la sua immagine
Tuttavia, le irritazioni non sono solo da osservare sulla scena politica. Alcune acquisizioni di imprese e di immobili, ma anche alcuni investimenti cinesi nel calcio svizzero, fanno digrignare i denti in Svizzera. Come nessun’altra potenza statale o quasi, il Partito comunista cinese (PCC) tenta di controllare la maniera con cui viene percepito all’estero. Anche in Svizzera sorveglia sistematicamente e con grandi sforzi il modo in cui si parla della Repubblica popolare nelle discussioni, negli istituti di formazione, nelle cerchie economiche e perfino sulla scena culturale. Dei rappresentanti del PCC partecipano a manifestazioni pubbliche. E non sono passati inosservati durante un evento organizzato dall’università di Zurigo, quando hanno estratto la loro telecamera nel momento in cui venivano poste, secondo il loro punto di vista, domande inappropriate. L’ambasciata cinese a Berna è in particolare intervenuta quando alcuni studenti dell’Università delle arti di Zurigo hanno realizzato un film sulle rivolte a Hongkong. Nel 2021, il caso di un dottorando dell’università di San Gallo (HSG) ha fatto colare molto inchiostro. Quest’ultimo aveva criticato il governo cinese su Twitter, dopo di che la sua professoressa aveva preso le distanze da lui. La sua domanda di riammissione presso la HSG, dopo un soggiorno in un’università cinese, è stata respinta. Al termine di questo conflitto, e dopo tre anni di lavori di ricerca, egli ha dovuto cambiare il suo percorso professionale. La HSG, che intrattiene contatti con università cinesi attraverso programmi di scambio e progetti di formazione e ricerca, ha nel frattempo annunciato che affronterà pericoli come il trasferimento incontrollato di conoscenze o l’autocensura.
Autocensura nella ricerca
Ralph Weber, professore presso l’Istituto europeo dell’Università di Basilea, pone questi eventi in un contesto più ampio. Parla di un problema strutturale, che concerne numerose scuole superiori in Europa. «L’autocensura è una questione che si pone a tutti i ricercatori che operano sul terreno di regimi autoritari». L’atteggiamento della Cina pone problemi alle scuole, ma soprattutto alle imprese e alla sfera politica. Il politologo ha analizzato il modo con cui il governo cinese usa la sua influenza in Svizzera. «I suoi sforzi in tal senso sono sistematici», ribadisce. Secondo Ralph Weber, lo Stato-partito cinese possiede una rete difficile da individuare di associazioni e organizzazioni che si associano con attori locali. «Tenta così di far entrare i suoi messaggi nelle nostre teste».
Chiunque faccia affari in Cina ha rapporti con il PCC. In quale misura bisogna compiacerlo? La questione ha suscitato un dibattito lo scorso anno, quando la banca Credit Suisse ha chiuso il conto dell’artista Ai Weiwei, che era critico nei confronti del regime cinese. La banca ha affermato di averlo fatto a causa della mancanza di alcuni documenti. Le voci critiche ritengono tuttavia che il Credit Suisse, che intenderebbe rafforzare la sua posizione sul mercato asiatico, ci teneva soprattutto a non infastidire le autorità cinesi.
Speranze deluse
Gli scambi bilaterali con l’impero cinese costituiscono da tempo un esercizio di equilibrismo. Partiti di sinistra e organizzazioni della società civile rifiutano di collaborare con un regime che “opprime le minoranze”. Essi condannano da anni la repressione dello Stato a partito unico contro i dissidenti tibetani, gli Uiguri e gli abitanti di Hongkong. Queste critiche e le richieste di un approccio più severo nei confronti della Cina sono recentemente diventate più forti. Alle Camere federali, le iniziative in tal senso si sono moltiplicate.
In autunno, il Parlamento si è chiesto se si dovesse completare l’accordo di libero scambio con un capitolo sui diritti umani e sociali. «Purtroppo la speranza di vedere dei progressi nell’ambito dell’apertura economica in materia di democrazia e di diritti umani si è rivelata deludente», ha dichiarato il consigliere nazionale verde liberale Roland Fischer (LU), sottolineando che gli anni di dialogo sui diritti umani hanno avuto uno scarso impatto. Il consigliere federale Guy Parmelin ha ribadito che sarebbe controproducente esigere delle clausole vincolanti. «Bloccheremmo così la situazione – ha messo in guardia – e chiuderemmo le porte del dialogo con la Cina su tutte le questioni importanti».
Pragmatismo o opportunismo?
«La Svizzera intende costruire dei ponti, sfruttare le opportunità e affrontare apertamente i problemi», si legge nella nuova strategia del Consiglio federale. Quest’ultimo vorrebbe così creare un quadro chiaro per i numerosi tipi di legami che la Svizzera intrattiene con la Cina. Il Consiglio federale continua ad optare per una politica cinese indipendente e sottolinea la sua neutralità. Parallelamente, intende impegnarsi a favore dell’integrazione della Cina nell’ordine internazionale liberale e nella gestione delle sfide mondiali. Il problema è che «su questo punto, questa strategia è ambivalente», afferma Ralph Weber, poiché si ignora come la Svizzera intenda concretamente metterla in atto. Questa ambiguità, afferma il politologo, viene portata avanti dalla Svizzera da decenni, dal momento che «ha deciso, per ragioni assolutamente comprensibili, di collaborare con un regime autoritario volendo restare fedele ai suoi valori». La Svizzera, prosegue, ha optato per una via pragmatica, che può anche essere vista come opportunista.
La via svizzera sotto pressione
Di fatto, è sempre più arduo per la Svizzera giustificare la sua neutralità. La guerra d’influenza mondiale condotta dalla Cina suscita reazioni di rifiuto in tutto il mondo. Sotto la presidenza di Donald Trump, gli Stati Uniti hanno nettamente inasprito la loro retorica e avviato una guerra commerciale contro la Cina. Joe Biden sembra più moderato, ma segue una strategia comunque chiara. Nel novembre 2021, ha posto in guardia il capo di Stato cinese Xi Jinping in un confronto. La concorrenza economica non deve degenerare in un conflitto, ha dichiarato il presidente americano durante un incontro virtuale, argomentando che tutti i paesi devono attenersi alle stesse regole del gioco.
L’anno scorso, l’UE ha pronunciato delle sanzioni contro i responsabili cinesi, protestando così contro gli “arresti arbitrari” di Uiguri nello Xinjiang. Pechino ha ben presto reagito adottando misure contro dei parlamentari e dei ricercatori europei. Il regime cinese ha così adottato contro-sanzioni quando sono state emesse critiche sulla sua gestione della pandemia: ha ad esempio limitato il commercio con l’Australia dopo che quest’ultima ha sostenuto le domande atte ad indagare sulle origini del coronavirus. Nel suo rapporto sulla situazione 2020, il Servizio di informazione della Confederazione (SIC) nota che, a livello mondiale, la Cina è divenuta un fattore di tensioni almeno dopo l’inizio della pandemia e che l’immagine internazionale della Cina ha sofferto. Nella sua analisi, il SIC evoca anche il pericolo dei cyberattacchi e delle attività cinesi di spionaggio. Queste ultime rappresentano, scrive, «una minaccia importante per la Svizzera». Questo mostra perché la neutralità svizzera nei confronti della Cina stia giungendo sempre più al limite.
Dibattito su un boicottaggio diplomatico
L’atteggiamento della Svizzera ha nuovamente fatto discutere prima dei Giochi olimpici invernali, quando gli Stati Uniti, il Canada, la Gran Bretagna e l’Australia hanno optato per un boicottaggio diplomatico, seguiti da vari Stati europei. Il consigliere nazionale zurighese Fabian Molina (PS) ha fatto valere che non si possono applaudire le competizioni sportive senza preoccuparsi dei diritti umani in Cina. «Non è opportuno festeggiare in un paese dove vengono commessi costantemente crimini contro l’umanità». Secondo lui, la Confederazione doveva piuttosto dare un segnale forte e rinunciare ad inviare una delegazione ufficiale.
Christoph Wiedmer, direttore della Società per i popoli minacciati, si è pure pronunciato a favore del boicottaggio. Per ottenere dei miglioramenti, occorre dar prova di fermezza, ha dichiarato. «Le violazioni dei diritti umani in Tibet e nello Xinjiang hanno assunto dimensioni inquietanti. Già nel 2008, i Giochi olimpici estivi hanno mostrato che senza una vigorosa pressione internazionale, la Repubblica popolare cinese non finirà di opprimere le sue minoranze».
Il Consiglio federale ha indugiato a rispondere a queste sollecitazioni. Infine, aveva comunicato che sarebbe stato “opportuno” che un rappresentante del governo si fosse recato alla cerimonia di apertura di Pechino. Ha tuttavia lasciato un certo margine di manovra riferendosi alla pandemia. Il suo portavoce ha dichiarato: «Se la situazione sanitaria richiedesse la presenza in Svizzera di tutti i consiglieri federali, il viaggio verrebbe annullato». A fine gennaio aveva deciso di non partecipare alle festività.
Schweizer Revue
Eveline Rutz
Simbolo involontario: il primo ministro cinese Li Keqiang “incontra” il consigliere federale e ministro dell’economia Johann Schneider-Ammann a Pechino (2013). Foto Keystone
Fino a quel momento tutto andava bene: il capo di Stato cinese Jiang Zemin di fronte alla presidente della Confederazione Ruth Dreifuss al suo arrivo all’aeroporto di Ginevra nel 1999.
Un po’ più tardi il disagio è palpabile: Jiang Zemin rimprovera alla presidente della Confederazione di non saper «controllare il suo popolo». Ruth Dreifuss si difende con veemenza e intende affrontare con decisione la situazione dei diritti umani in Cina. Foto Keystone, 1999
Il giornalista e fotografo Walter Bosshard ha contribuito all’avvicinamento tra la Cina e l’Occidente. Le immagini che egli ha realizzato tra il 1930 e il 1939 fanno oggi parte della memoria visiva della Cina. Nel 1938, Walter Bosshard ha incontrato Mao Zedong. Foto Keystone
Il costruttore lucernese di ascensori Schindler è la prima azienda industriale occidentale ad aver stipulato una joint-venture con i Cinesi nel 1980. Ne beneficia oggi a seguito del boom della costruzione nelle metropoli cinesi. Foto iStock