Vi raccontiamo Armin Meili, svizzero tra architettura e politica

Intervista ad Alberto Bortolotti di Nicola Magni

In questo numero intervisto il dott. Alberto Bortolotti per riuscire al meglio nel mio intento di raccontarvi la figura di Armin Meili.
Il dott. Bortolotti è un giovane professionista che, come Meili, è riuscito a coniugare e perseguire le sue due passioni più grandi: l’architettura e la politica.
Nonostante la giovane età, Alberto è vicepresidente dell’Ordine degli Architetti di Milano e attivista politico, per cui chi meglio di lui?

Ciao Alberto, innanzitutto cosa ne pensi della figura di Armin Meili?

«Ciao Nicola, grazie per la possibilità di discutere del rapporto tra architettura e politica a partire dalla figura di Armin Meili. Credo che l’opera del controverso maestro svizzero, tanto attento alla cultura architettonica quanto poco favorevole all’ascesa mondiale delle teorie del Movimento Moderno, sia stata influente per le opere pubbliche e la pianificazione urbanistica della Confederazione Elvetica, specialmente dal Secondo Dopoguerra. Ciò nondimeno, le sue architetture furono comunque contaminate dalla scuola del Bauhaus, come si può notare in alcune sue creazioni, a partire dal Centro Svizzero di Milano e dalla Casa Martinsberg di Baden. In questi edifici, infatti, alcuni caratteri ricorrenti del Moderno, come la sequenza regolare delle ampie finestrature, la pianta libera sorretta da pilastri in calcestruzzo e la scomposizione dei volumi primari, plasmano e danno ritmo al progetto. In questo senso è possibile affermare che il Movimento Moderno ha interpretato una tale domanda di riscatto sociale in Europa, da influenzare anche l’opera di autori che non ne condividevano del tutto l’impianto valoriale, come noto, spiccatamente socialista».

A tuo parere com’è possibile coniugare due percorsi professionali così diversi, ma egualmente impegnativi come quello dell’architettura e quello della politica?

«Sono sicuramente due percorsi molto impegnativi costruiti su variabili spesso non controllabili. In alcuni casi, l’architetto si trova a operare in circostanze di budget limitato, o con vincoli paesaggistici impattanti, in questi casi è costretto ad “ingegnarsi”, e lì talvolta nasce qualche capolavoro. Anche il politico ha problemi simili, la condizione per promulgare grandi riforme o raggiungere risultati elettorali importanti viene sempre più indirizzata dal mutamento delle condizioni al contorno. Ciò che unisce l’operato delle due figure credo sia la loro spiccata vocazione sociale, il raggiungimento di un obiettivo collettivo che riguarda da un lato gli spazi dell’abitare, dall’altro lato, il come vivere questi spazi. In una sua lezione al Politecnico di Milano, Renzo Piano ha parlato del mestiere dell’architetto come figura capace di unire la tecnica all’etica. Cos’è la politica se non il servire nel modo più alto l’etica umana? Credo che sia possibile coniugare i due impegni con grandi fatiche e rinunce, ma è assolutamente possibile. Anzi credo che lo Stato, nelle sue varie articolazioni amministrative, beneficerebbe di maggiori architetti come assessori comunali e regionali ad esempi».

Quanto questi due ambiti si influenzano a vicenda? Quanta politica c’è nell’architettura e viceversa?

«Credo siano due ambiti che spontaneamente si influenzano moltissimo l’un l’altro. Nel passato recente è stata più la politica a voler influenzare l’architettura, basti pensare al Millennium Dome di Richard Rogers a Londra, fortemente voluto da Tony Blair, o al distretto finanziario della Dèfense a Parigi, promosso da François Mitterrand. Tuttavia, normalmente è stata l’architettura ad aver plasmato gli spazi della politica, e spesso alcuni dei luoghi più iconici delle capitali europee sono proprio gli “spazi del potere”. Penso che il nesso tra politica e architettura sia estremamente affascinante perché le decisioni più importanti risentono dello spazio architettonico nel quale vengono assunte, non è un aspetto secondario. Così come la qualità della nostra vita cambia in base alla metratura o alla disposizione spaziale delle nostre abitazioni, così il pensiero politico può assumere sfaccettature diverse in base, ad esempio, all’austerità dei palazzi della politica, il loro slancio o, al contrario, la loro semplicità. Il Palazzo Federale di Berna, che Meili per molti anni ha frequentato, ha uno stile classico che poco ostenta il potere, al contrario il Palazzo del Reichstag a Berlino o il Palazzo del Senato a Parigi sono complessi edilizi pensati per enfatizzare pienamente l’esercizio del potere; quindi, architettura e politica hanno tanto in comune».

ARMIN – L’ARCHITETTO

Figlio dell’architetto lucernese Heinrich Meili, il giovane Armin studia architettura al Politecnico di Zurigo, per poi diventare assistente di Karl Coelestin Moser.

Meili inizia ad operare come socio unico dello studio paterno nel 1924, Com’era l’architettura in quegli anni? C’erano grandi differenze tra Italia e Svizzera?

«Gli anni ‘20 sono stati anni di profonde trasformazioni sociali, durante i quali l’architettura ha giocato un ruolo fondamentale nel plasmare sia l’abitare domestico sia lo spazio pubblico della nuova società collettivista. Le grandi mobilitazioni operaie e la successiva ascesa del regime fascista in Italia hanno senza dubbio segnato quel periodo, con riflessi nella società svizzera. Nonostante le rilevanti differenze politiche tra questi paesi la domanda di nuovi impianti sportivi e balneari, nonché la riorganizzazione dell’istruzione pubblica hanno determinato i fondamentali del razionalismo italiano che ha visto la sua massima espressione proprio in alcune località di confine, ad esempio negli edifici di Giuseppe Terragni a Como. Il primo periodo di Meili è ancora segnato da uno stile più ottocentesco che novecentesco, ma comunque austero, che riprende elementi Schinkeliani ma si affaccia alle nuove teorie moderniste. In questo senso, il percorso di maturazione architettonica del maestro svizzero riprende quello del connazionale Le Corbusier, per quanto lo sviluppo delle loro opere rimanga molto diverso».

Per i milanesi, Meili è celebre per aver realizzato il Centro Svizzero di via Palestro, che ospita al suo interno le maggiori rappresentanze di istituzioni elvetiche nelle città meneghina. Quali sono le particolarità di questa struttura?

«Il Centro Svizzero è indubbiamente una delle migliori opere del Moderno presenti nella nostra Milano. L’elemento a torre che domina i Giardini di Porta Venezia, il lungo, austero e poderoso volume sottostante e la contiguità all’antica cortina edilizia sfociante nella muraglia della Villa Belgiojoso sono a mio parere gli elementi distintivi di quest’opera. Il complesso è poi arricchito da alcuni pregevoli dettagli che ne aumentano il valore come il ritmo che scandisce le ampie finestrature e i marmi policromi che rivestono gli interni, sia sulle partizioni murarie che sulle pavimentazioni. Infine, un altro aspetto saliente del progetto del Centro Svizzero è la pianta libera che contraddistingue ogni piano e consente la disposizione degli uffici in modo diversificato ma comunque funzionale. In un certo senso, la struttura, che è un insieme di raffinatezza e semplicità, credo raffiguri al meglio la Svizzera a Milano, una città che da sempre coltiva proficui rapporti con molte delle città della Confederazione Elvetica».

ARMIN – IL POLITICO

Parallelamente alla professione di architetto Armin Meili si è dedicato alla carriera politica.

Com'era la situazione politica Svizzera all’epoca?

«Nel periodo in cui il Centro Svizzero venne costruito penso che il Governo elvetico fosse orientato a rafforzare la propria politica multilaterale, specialmente nei grandi Paesi continentali limitrofi. Da qui l’idea di progettare un edificio in grado di poter ospitare le maggiori autorità svizzere a Milano, implementando e migliorandone le attività sia sul piano diplomatico che culturale».

Nel 1939 divenne Consigliere nazionale del Partito Radicale Democratico svizzero. Celebre è stata la mozione che prende il suo nome, in cosa consisteva?

«Nel 1940, Meili si occupò di alcune importanti norme in materia di pianificazione territoriale e in particolare coesione regionale che favorirono uno sviluppo edilizio per quanto possibile integrato all’ampio sistema infrastrutturale svizzero. Per quegli anni, l’apporto di Meili alla coesione territoriale in Svizzera fu innovativo in quanto questo ambito normativo era piuttosto sperimentale e nasceva dalla necessità di pensare un rapporto maggiormente armonico e sinergico con la natura e il paesaggio».

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