Emilia Passera, la regina del basket che vinceva tutto

Scarpette da ginnastica e niente paga, gioie e amari aneddoti della pallacanestro ticinese anni ’60

Lugano - L’orgoglio della pallacanestro svizzera degli anni ’60 si chiamava Emilia Passera, una cestista e attaccante eccellente, ricordata ancora oggi per la capacità di andare sempre a canestro. Passata la palla, canestro sicuro!

Bravissima nello sport e bellissima. Fu una ragazza molto popolare per i continui titoli sui giornali, l’offerta sia di ingaggi alla radio-televisione sia di matrimoni prestigiosi. Tutto questo portò tanta gioia ma suscitò anche l’invidia di qualcuno che le fece passare qualche amarezza in quegli anni favolosi. Memorabili i suoi interventi nella Riri Mendrisio, nella Muraltese di Locarno, nella Stade Français a Ginevra e nei campionati nazionali ed europei. Molto richiesta pure dalle squadre italiane e brava tanto da poter svolgere contemporaneamente anche tre campionati alla volta.

Allora la pallacanestro importata dell’America, o basket come si chiama oggi, non era uno sport così consolidato come altre discipline europee. Non giravano soldi, si giocava per passione.

Appena diciassettenne, notarono le sue capacità atletico-tecniche e la acquisirono nella Nazionale svizzera, della quale fu una formidabile attaccante ala sinistra in una quindicina di gare. L’ultima volta fu a Udine. Stranamente, durante quella partita, viene messa poco in campo, anche se ogni volta puntualmente segna. Ad un certo punto il pubblico, addirittura quello italiano (specie maschile, data la sua avvenenza), chiama a gran voce il suo nome! Emilia chiede numi all’allenatore sul perché non la lasci giocare, ottenendo una insulsa risposta, che non serve qui riportare. Le parve di capire che la sua squadra doveva perdere. E così fu.

Per quella ragazzina, con obiettivi sinceri e piena di entusiasmo per la sua pallacanestro, è l’inizio delle disillusioni.

Infatti non fu l’unico episodio di “stranezze” anti-sportive che sperimentò e che noi tutti, in ogni tipo di sport, abbiamo potuto conoscere dalle cronache che da decenni raccontano gravi ed estese “anomalie”, dalle gare truccate, al doping, ai giri di scommesse.

«Mi chiamò la Nazionale per altre partite – ci dice Emilia Passera – ma non volli più andare. Volevo giocare per il puro piacere di segnare e non per sottostare a dinamiche che di sportivo non avevano nulla. Così continuai a competere solo nei campionati svizzeri e, con la Muraltese di Locarno, anche in tornei all’estero».

Integrità morale e abilità sportiva. Quest’ultima è una dote con cui si nasce, è così?

«Diciamo che in famiglia, eravamo molto predisposti allo sport. Graziella, con la quale ero in squadra, lo ha dimostrato ampiamente. A volte mi ha sostituita sbaragliando alla grande le avversarie. Per i giornali eravamo “le due terribili sorelle Passera”. Oltre alle doti naturali, si sa che la volontà e la disciplina sono fondamentali. Ho avuto la fortuna di avere Yogi Bough come allenatore. Veniva dagli Usa, patria del basket, aveva realizzato tanti successi come giocatore-allenatore in Italia. Poi lo ingaggiarono in Svizzera. Oltre ad essere un serio professionista era un brav’uomo. Ricordo che veniva a casa a parlare con mio padre Angelo della sua religione avventista, era simpatico e alla mano. Lui fu importante per la mia carriera sportiva. Ho avuto dei bellissimi momenti con questo sport. Ma anche qualche brutto episodio che allora mi fece male e che tuttora non concepisco…»

Per esempio?

«Avevo invitato un’atleta italiana molto forte ad entrare nella nostra squadra, come ricompensa subii la sua gelosia dovuta anche a ragioni economiche. Non accettava che io segnassi più di lei, quindi non mi passava più la palla. Era l’unica ad essere pagata. Riceveva la bella somma, per quei tempi, di 1’000 franchi al mese. Quindi, se fosse stata ritenuta migliore di me, secondo il suo ragionamento, avrebbe mantenuto quello stipendio per molto tempo ancora. Scoprimmo poi che a sua volta pagava 1 franco per ogni canestro che facevano le giovani, affinché anche loro segnassero al mio posto. Insomma, io non dovevo arrivare a toccare la palla. Seppi anche che nel suo ambiente, in Italia, era nota per il suo comportamento scorretto. Tutto questo, non me lo sarei mai aspettato».

Ma l’allenatore non sorvegliava la situazione?

«All’inizio nessuno arrivò a sospettare quella tresca, ricordo solo il nostro allenatore Yogi Bough che gridava continuamente “passate la palla all’Emilia!” ma non la passavano mai… Prima di andare in Polonia per i campionati europei, con mio padre ci siamo recati dal direttore Fontana, presente il presidente della Riri, per metterli al corrente di questo amaro retroscena, di fronte all’atleta italiana».

Finalmente, e cosa accadde?

«Sentendo mio padre dire: “non manderò mia figlia in squadra a queste condizioni”, redarguirono l’atleta che in Polonia fu tenuta a comportarsi bene, e infatti io segnai. Al ritorno in Ticino non mi parlò più. Io, mia sorella Graziella e le altre avevamo iniziato a giocare a basket per puro divertimento e senza prendere soldi, ma in quel quadro umano, ormai alterato, non mi sentii più a mio agio».

Un vero peccato.

«Prima di questa infelice entrata, la nostra squadra era una famiglia, poi tutto si è rovinato. L’assurdo è, per fare un esempio, che quando abbiamo giocato contro la CREF a Madrid, io con altre ragazze siamo diventate amiche delle avversarie, mentre nella mia squadra dovevo guardarmi le spalle. Basta un cattivo soggetto a rovinare i rapporti in un team, dove invece dovrebbe valere il motto “l’unione fa la forza”».

Passiamo ai bei momenti: come sono stati gli inizi?

«A quindici anni ho cominciato nella pallacanestro grazie a Gino Panzeri, maestro di ginnastica a scuola che mi propose di andare alla Federale Lugano dove c’era questo americano, Yogi Bough, che insegnava questo sport. E così ho cominciato ad allenarmi e a gareggiare nella Federale. A 17 anni ero nella Nazionale, abbiamo giocato in Austria. Ricordo che abbiamo preso il treno che aveva i sedili di legno. Noi della squadra svizzera femminile avevamo un solo scompartimento e facevamo i turni in piedi, quella maschile aveva ben due scompartimenti; sessismo di altri tempi (ride ndr.). Comunque noi, la squadra femminile, vincemmo fuori casa contro l’Austria».

A 17 anni anche la Comense l’aveva cercata per un’entrata fissa nella squadra italiana.

«Sì, ma mio padre mi consigliò di finire prima le scuole. Mentre mi diplomavo, però, in Italia erano subentrate norme per le quali non si potevano più acquisire stranieri e così restai a giocare in Svizzera».

Lo sport le diede modo di viaggiare spesso.

«Certo, ed era tutto nuovo e interessante per noi. Quando siamo andate nella Polonia comunista, eravamo controllate da un loro agente. Le ragazze della squadra avversaria – con cui avevamo giocato tempo prima in Svizzera – ci avevano chiesto di portare con noi nella partita di ritorno a Lotz, Varsavia, calze di nylon e maglieria intima. Con mille cautele siamo riuscite a consegnargli tutto. Erano povere, ma furono molto gentili nel contraccambiare donandoci i loro caratteristici oggetti di cristallo di Boemia. Fu commovente. Quando noi svizzere andammo in giro per le fredde vie di Lotz e di Varsavia ben imbottite e con caldi stivali, attirammo molto l’attenzione, ci presero per ricche straniere. Quando arrivammo con il pullman c’erano tante persone che ci accolsero salutandoci con affetto: avevano molta curiosità nell’osservare gente che veniva dall’estero. Nella loro povertà, ci offrirono tutto quello che poterono. A me regalarono dei fiori realizzati con del camoscio. Ripeto, fu tutto bello e commovente».

Quindi la sua adolescenza fu costellata da tante esperienze umane. E chissà quante emozioni per le vittorie ottenute…

«Ogni tanto guardo le foto, i titoli dei giornali di allora, per rivivere le tante soddisfazioni sul campo, la gioia delle tante vittorie, il calore del pubblico, la vicinanza della gente. E le allegre trasferte. A quel tempo non si viaggiava facilmente come si fa oggi. Si facevano le gite scolastiche o con la famiglia. Quindi andare all’estero con l’aereo, conoscere nuovi popoli e luoghi fu straordinario, ricordo tutte queste meravigliose esperienze con grande piacere. Lo sport mi ha dato tanto».

La preparazione agonistica era forse un po’ diversa da oggi?

«Credo di sì. Ora, almeno a certi livelli, svolgono un’attività atletica più strutturata, hanno i motivatori specializzati oltre all’allenatore, calzature più performanti anti- microfratture e cosi via. Noi studiavamo, lavoravamo e ci allenavamo con le nostre scarpette da ginnastica… nostro padre fissò un canestro in giardino in modo che in ogni ritaglio di tempo io e mia sorella potessimo esercitarci. All’inizio avevo poco fiato perciò mio padre mi faceva correre facendo tutto il giro di Pregassona (una zona di Lugano ndr.), ricordo la fatica dopo una giornata di studio, quando avrei voluto solo riposare. Tuttavia lo devo ringraziare per tutto quel lavoro sul fiato perché ancora oggi, a 83 anni, gioco a tennis e ho più polmoni di certi giovani (ride ndr.). Se non la si abbandona, se non si diventa pigri, l’attività fisica può tranquillamente accompagnarci per tutta la vita».

Annamaria Lorefice

Emilia Passera, un mito durato dalla fine degli anni ’50 al 1972. In una recente classifica di tutti gli sport in Svizzera è risultata 6a come atleta femminile più votata. Nasce in una famiglia di sportivi: la sorella Arnalda fuori dalla scuola batte i maschi nelle corse, Graziella, ottima cestista, segna molti punti a basket in squadra con Emilia, tanto che i giornali le indicano come le “terribili sorelle Passera”, i due fratelli vincono primi premi, Livio ben 5 nel canottaggio e Rinaldo campione ticinese di Skiff. Il padre Angelo ideò un macchinario con il quale allenava a Lugano ragazzi divenuti famosi nel canottaggio.

Nel 1957 Emilia ha recitato nella compagnia dialettale di Sergio Maspoli nella storica Radio Monteceneri di Lugano.

Nel 1969 con la squadra rossocrociata, ha partecipato e vinto a “Giochi senza frontiere” popolare evento televisivo promosso dall’Unione europea.

La formazione della Riri nel 1968 riconquista il titolo di campione svizzero femminile. A sinistra nella foto, a fianco della n.7 Emilia Passera, l’allenatore americano Yogi Bough e sotto di loro in ginocchio, la prima a destra, Graziella Passera.

I giornali aprivano la pagina sportiva con titoli elogiativi come: «Svettano ancora le sorelle Passera» o «Il vuoto alle spalle con le sorelle Passera». Nella foto, il Corriere del Ticino pubblica il totale dei punti, 404, realizzati durante l’anno 1972 dalla “cannoniera” Emilia Passera, che supera anche il punteggio dei giocatori delle formazioni maschili.

La Gazzetta ha bisogno di te.

Cara lettrice, caro lettore online,
la Gazzetta Svizzera vive anche nella versione online soprattutto grazie ai contributi di lettrici e lettori. Grazie quindi per il tuo contributo, te ne siamo molto grati. Clicca sul bottone "donazione" per effettuare un pagamento con carta di credito o paypal. Nel caso di un bonifico clicca qui per i dettagli.