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«Italiani in Svizzera e svizzeri in Italia – La ricchezza di sentirsi straniero»

Intervista a Toni Ricciardi

Tra Italia e Svizzera si estende un legame fatto di storia, cultura e flussi migratori che hanno da sempre plasmato le identità dei due Paesi. In questo contesto, Toni Ricciardi rappresenta una voce autorevole e di riferimento: cresciuto tra le due nazioni, con una profonda conoscenza dei meccanismi politici e sociali che ne regolano i rapporti, Ricciardi ha dedicato la sua carriera a rafforzare la cooperazione bilaterale e a tutelare gli interessi dei cittadini italiani all’estero. Deputato della Repubblica Italiana eletto nella circoscrizione Europa e Presidente dell’Intergruppo parlamentare dell’amicizia Italia–Svizzera, il professor Ricciardi unisce competenza storica ed esperienza pratica, offrendo una prospettiva unica sulle migrazioni, sull’integrazione e sulle sfide contemporanee che caratterizzano il rapporto tra questi due Paesi così vicini, eppure così diversi.

Nel corso degli anni è diventato uno dei maggiori esperti di migrazioni e insegna come docente presso l’Università di Ginevra, condividendo le sue conoscenze con studenti e professionisti e contribuendo al dibattito accademico e istituzionale su mobilità, integrazione e politiche transfrontaliere.

Professor Ricciardi, cosa ha significato per Lei essere cresciuto tra Italia e Svizzera, due Paesi così vicini e simili, eppure allo stesso tempo così diversi?

«La prima sensazione che si prova è quella di sentirsi stranieri ovunque: svizzeri in Italia e italiani in Svizzera. Con il tempo, però, si comprende la ricchezza di questa condizione. La vera potenzialità sta nel poter vivere e crescere in due realtà vicine, ma non identiche. Ho trascorso una parte della mia vita in Svizzera tedesca e ora vivo in Svizzera francese, dove cambiano anche gli scenari. All’inizio ti senti straniero ovunque, poi impari a sentirti parte di entrambe le realtà.»

Tra tradizione e integrazione: l’evoluzione della comunità italiana in Svizzera

Professor Ricciardi, quando e come possiamo parlare di una presenza svizzera in Italia? Quali sono stati i periodi più significativi di questa migrazione e in quali settori, dall’artigianato all’edilizia, dal mondo bancario a quello dell’ospitalità — i cittadini svizzeri hanno lasciato un’impronta più visibile?

«La presenza svizzera in Italia è molto antica: basti pensare alle Guardie Svizzere a difesa del Papa, segno che questa presenza esisteva già prima ancora della nascita della Svizzera moderna. Un altro esempio significativo è quello di Napoli, dove esisteva un mondo legato alla pelletteria e ai guanti: nel Settecento, la città era rinomata per la qualità del suo tessile, in gran parte frutto di un’influenza svizzera.

Oggi si registra una presenza in crescita nelle principali città italiane, come dimostrano gli istituti svizzeri di cultura e le scuole svizzere presenti a Milano, Roma e Napoli. A ciò si aggiungono numerosi cittadini che, nel corso dei decenni, hanno acquisito la cittadinanza svizzera e successivamente si sono ritrasferiti in Italia, spesso nei luoghi d’origine, contribuendo a rafforzare ulteriormente questo legame storico

E come vivono oggi i discendenti degli emigrati svizzeri la loro identità “doppia”?

«Chi è doppio cittadino rappresenta pienamente l’idea di un’identità plurima: si possono essere molte cose insieme, senza che una escluda l’altra. Essere italiani e, allo stesso tempo, svizzeri non è una contraddizione, ma un valore aggiunto.»

Quando possiamo iniziare a parlare di migrazioni tra Italia e Svizzera? Quali sono stati i primi movimenti e come si è formata la comunità italiana in Svizzera?

«Già tra la fine del Medioevo e l’inizio dell’età moderna si registrano i primi trasferimenti in Svizzera, in particolare di banchieri toscani e genovesi che introdussero le prime forme di credito e finanza.

Se invece parliamo di immigrazione di massa, bisogna arrivare alla seconda metà dell’Ottocento, con la costruzione dei grandi trafori del Gottardo e del Sempione: furono questi i primi eventi che generarono un flusso migratorio consistente.

In quel periodo la Svizzera era un Paese di forte emigrazione, ma al tempo stesso accoglieva una crescente immigrazione, favorendo così l’inserimento e l’industrializzazione degli stranieri, tra cui un numero sempre maggiore di italiani.»

Come è cambiata la percezione e l’integrazione degli italiani in Svizzera tra le diverse generazioni?

«Fino ai primi anni Ottanta, la principale comunità straniera in Svizzera era quella italiana, accanto a presenze minori provenienti da Paesi confinanti come Germania, Austria e Francia.

Un momento simbolico di svolta è il 1982, con la vittoria dell’Italia ai Mondiali di calcio: da allora l’“italianità” in Svizzera viene percepita con maggiore orgoglio e positività.

Negli anni precedenti, tuttavia, la situazione era complessa: dagli anni Sessanta, con il rinnovo dell’accordo bilaterale del 1948 e la tragedia di Mattmark del 1965, cresce la consapevolezza del contributo italiano allo sviluppo svizzero. Gli anni Settanta, invece, furono segnati da tensioni xenofobe e dalla crisi petrolifera del 1975, che portò al rientro di circa 300.000 lavoratori, in gran parte italiani.

Negli anni Ottanta la Svizzera cambia volto, diventando sempre più innovativa, mentre l’Italia si trasforma nel simbolo di uno stile di vita ammirato: la moda, il design e la cucina italiana conquistano il mondo. È in questo contesto che l’immagine degli italiani in Svizzera evolve, passando da quella di manodopera a quella di portatori di cultura e qualità.»

Quali comunità italiane hanno avuto un impatto maggiore sulla società svizzera, sia a livello culturale che economico?

«Paradossalmente, l’impatto più forte si è avuto nella Svizzera tedesca. Tralasciando la Svizzera italiana, dove la vicinanza linguistica e culturale ha sempre facilitato l’integrazione e dove oggi vivono circa 200.000 italiani solo nel Canton Ticino, è proprio nella parte germanofona che l’italianità ha lasciato un segno più profondo.

In quest’area, la migrazione italiana ha contribuito in modo decisivo alla diffusione della cultura e dei modelli di vita italiani, in un contesto molto diverso da quello della Svizzera romanda, dove la lingua latina e l’approccio culturale francese favoriscono invece un processo più assimilazionista.

Le principali comunità italiane si sono sviluppate nelle grandi città come Zurigo, Basilea, Ginevra, Lucerna, San Gallo e nel Vallese. In generale, per comprendere la presenza italiana in Svizzera bisogna seguire l’evoluzione del suo tessuto produttivo: dove si sviluppavano nuove opportunità economiche, lì si spostavano anche i flussi migratori italiani.»

Come si è evoluta l’identità culturale degli italiani in Svizzera, tra il mantenimento delle proprie tradizioni e la necessità di integrarsi in un Paese caratterizzato da diverse realtà linguistiche e culturali? In che modo queste due culture si sono influenzate reciprocamente, dando vita a nuove forme di identità e tradizione condivisa?

«Un primo elemento interessante è l’utilizzo, sempre più diffuso, di parole italiane nel linguaggio comune svizzero, un fenomeno che un tempo non esisteva e che testimonia un’influenza culturale reciproca.

In secondo luogo, si osservano nelle diverse generazioni italiane in Svizzera delle vere e proprie stratificazioni linguistiche. Le seconde e terze generazioni, ad esempio, parlano perfettamente lo Schwyzerdütsch, ma mantengono anche espressioni e riferimenti legati alla cultura d’origine. È frequente uno switch linguistico naturale, in cui si passa dallo Schwyzerdütsch all’italiano nella stessa conversazione, soprattutto in contesti emotivi o identitari, come durante una partita di calcio. Questo intreccio linguistico e culturale rappresenta la nascita di una nuova identità condivisa, a cavallo tra le due culture.»

Giuseppe De Michelis, rafforzò la presenza italiana in Svizzera, come lui Antonio Vergnanini. Quali figure e tappe sono state fondamentali nel processo di interazione?

«All’inizio del Novecento, Giuseppe De Michelis dimostrò, attraverso rapporti e studi, che non era vero che gli italiani commettessero più reati degli svizzeri, contribuendo a contrastare stereotipi e pregiudizi.

Tra le figure chiave del periodo successivo c’è Egidio Reale, militante tra gli esuli antifascisti italiani e primo Ambasciatore italiano in Svizzera, che negoziò l’accordo del 1948. A lui si collegano personalità come Ignazio Silone, Luigi Einaudi e Fernando Schiavetti, primo presidente nazionale delle Colonie libere e padre costituente, che hanno rivendicato diritti e accettazione per gli italiani in fasi storiche diverse.

Nel periodo successivo, durante il lento processo di integrazione degli anni Sessanta, emergono figure come Leo Zanier, che fondò ECAP in Svizzera, comprendendo l’importanza di formazione e supporto per i lavoratori italiani provenienti dal Sud, contribuendo alla costruzione di una comunità più strutturata e integrata.»

Tra due Paesi: sfide, obiettivi e visione dei rapporti tra Italia e Svizzera

Come vive il ruolo di figura chiave tra Italia e Svizzera, e quali sono oggi le principali sfide e obiettivi?

«Nella funzione che svolgo attualmente, il compito principale è migliorare le condizioni di supporto e assistenza agli italiani, attraverso le reti diplomatiche, consolari e i servizi dedicati. Negli ultimi mesi, però, si sta affrontando una grande sfida legata alla legge italiana sulla cittadinanza degli italiani all’estero: dal 1992 questa legge ha permesso la doppia cittadinanza, tanto che oggi in Svizzera quasi il 60% degli italiani sono doppi cittadini, ma ora alcune norme ne penalizzano la trasmissione.

Sul fronte delle relazioni con la Svizzera, invece, sono stati fatti notevoli passi avanti: con fatica e sacrificio, oggi possiamo dire che gli italiani in Svizzera sono ben integrati e riconosciuti come parte attiva della società.»

Quali sono le principali realtà e istituzioni che ritiene fondamentali per questo lavoro?

«Sono presidente dell’Intergruppo parlamentare dell’amicizia Italia – Svizzera. Dal 16 al 17 settembre sono stato a Berna in visita al Palazzo Federale, dove ho incontrato le istituzioni svizzere per discutere delle relazioni bilaterali.

Tra i risultati concreti, abbiamo rinnovato l’accordo sui frontalieri, che da un lato ha permesso di rimuovere la Svizzera dalla blacklist italiana e dall’altro ha introdotto una serie di miglioramenti per i lavoratori frontalieri, nei trasporti e nell’integrazione sociale.»

Che consiglio si sentirebbe di dare a un giovane che nasce a cavallo tra questi due Paesi?

«Più culture e tradizioni diverse si incontrano, maggiore è la sensibilità e la ricchezza personale che ne deriva. Essere tante cose insieme non è uno svantaggio, ma un vero arricchimento.»

Guardando al futuro, quali sviluppi auspica nei rapporti tra Italia e Svizzera?

«Dal punto di vista economico, commerciale e legislativo, c’è ancora molto lavoro da fare per migliorare l’integrazione tra i due Paesi. Servirebbero, ad esempio, procedure più snelle per il riconoscimento automatico delle professioni e la portabilità dei diritti: oggi un infermiere qualificato in Italia deve spesso attendere anni per ottenere il diploma federale in Svizzera, prima di poter esercitare pienamente. Questi passaggi dovrebbero essere progressivamente facilitati.

Un’altra sfida riguarda la sperimentazione di nuove modalità di lavoro, come lo smart working o il telelavoro per i frontalieri, che potrebbe ridurre la mobilità, l’urbanizzazione e creare vantaggi sia per datori di lavoro sia per i lavoratori. Resta da chiarire la gestione degli aspetti contributivi, come la cassa pensione, più che quelli fiscali.

In generale, credo che serva costruire un humus di maggiore sensibilità e cooperazione reciproca, così da consolidare i progressi già fatti, come i bilaterali rinegoziati, e garantire che non vengano compromessi da iniziative di tipo populista.»

Nicola Magni

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